Ci sono libri che capitano tra le mani in modo inatteso, non c’è un prima che nasconda la curiosità di una lettura, semplicemente si tratta di un incontro casuale privo di attese. Un amico lascia scivolare un piccolo rettangolo tra le mani, sussurrando velocemente un “leggilo”, e tu lo fai.
Non avevi fatto caso al titolo imponente, solo quando accarezzi quel piccolo oggetto, lo noti e consideri l’intensità delle parole che risaltano sul fondo bianco della copertina: “Il dono di saper vivere” di Tommaso Pincio, della Einaudi.
La prima cosa che pensi è: e chi ce l’ha quel dono? Sicuramente tu no, ma poi che cosa vuol dire avere il dono di saper vivere? È già passata mezz’ora e non hai ancora letto niente, ma hai tanto su cui pensare.
Decidi di attendere il momento giusto per iniziare la lettura e il libro, in bella vista sul comò, giace immobile in attesa di essere maneggiato e di poter prendere la parola.
Passano due giorni e l’incontro avviene, inatteso come il passaggio iniziale dall’amico alla tua custodia.
Ti ritrovi a leggere di un tizio che narra la sua storia dalla cella nella quale si ritrova dopo aver commesso chissà quale reato; l’offesa perpetrata è sicuramente grave se il tempo da trascorrere in gattabùia si comprende essere lungo.
I frammenti di una vita, nei ricordi in movimento, ricompaiono per delineare un modo di stare al mondo di chi non ha mai voluto dare credito ai segnali della vita e, nei bivi che l’esistenza impone, ha scelto seguendo uno schema del tutto personale, e per questo incomprensibile.
Le speranze di una vita che rispecchi il proprio modo di essere, sono lasciate ad un caso che non s’intende considerare tale. Gli avvenimenti si succedono privi di qualsiasi orientamento, anzi sembra che il protagonista si ostini a ritrovare strade che allontanino da quello che potrebbe avvicinarsi all’idea di un desiderio.
La possibilità di una quotidianità che esprima l’estro artistico di chi si racconta, sfuma continuamente fino a trasformarsi nella giornaliera battaglia per la vendita di telefax, e poi ripresentarsi nella concretezza di un lavoro in una galleria d’arte romana, di proprietà di un sinistro signore.
La galleria si trova nella strada dove Michelangelo Merisi, alias Caravaggio, consumò la sua esistenza rocambolesca e commise l’omicidio che ne determinò la rovinosa deriva.
Caravaggio incarna il prototipo del genio scellerato, inizialmente posto ai margini dell’arte dagli intenditori che non comprendevano, o non volevano riconoscere la nuova e intensa capacità dell’artista di raccontare. Un uomo predisposto naturalmente “all’arte” di mischiarsi in situazioni ai margini della legalità, circostanza che contribuì a renderlo inviso a molti.
La vita di Caravaggio diventa la ricostruzione di una biografia personale dell’autore, poco nota ma interessante, in cui il dono di saper vivere sembra essere completamente inesistente.
Caravaggio incarna l’incapacità di tutti, la forza distruttrice che ciascuno pone in atto nelle situazioni che la vita offre; un uomo in cui l’arte della pittura si scontra con quella del vivere lasciando intravedere l’umana inettitudine.
Claudia Squitieri