Jan Fabre, in questo percorso-viaggio napoletano rappresentato dal progetto Oro Rosso riporta, per la terza volta in città, un’opera che forse più di altre racconta una possibilità di speranza e rilancio. O almeno un punto di vista diverso su come vivere la vita. Al museo Madre, nel suo cuore, tra le pareti bianche del cortile, si può vedere, dal 30 marzo al 30 luglio, una nuova versione, questa volta in marmo (2018), de L’uomo che misura le nuvole.
Un uomo, in piedi su una scala, tende verso l’alto con tra le mani un metro da architetto. Il suo muro però non è di pietra, è “di” cielo. Le nuvole passano e lui sta là. Pronto a carpirne il senso. Le misura, come se fosse possibile, come se fosse l’unica cosa possibile in questo tempo di impermanenza. Il suo compito più profondo, è, nel rendere poesia ogni giorno, alzare lo sguardo oltre il passo triste del quotidiano limite, e trasformare lo spazio limitato in infinito.
E così il cortile del Museo per tutti diventa un’occasione per superare le pareti dell’apparente limite e spingere, grazie a questo invito, insieme a lui, lo sguardo oltre. Accettare un nuovo punto di vista.
Come tutte le opere di Fabre L’uomo che misura le nuvole non è solo una stauta parlante che, autoritratto scolpito, reduplica il suo stesso volto, ma una storia a più livelli. Una storia che parte da una suggestione reale per raccontare infiniti intrecci. Un personaggio noto come l’ornitologo di Alcatraz, Robert Stroud, un uomo condannato più volte a morte per omicidio, ma sempre sopravvissuto e che dedivandosi allo studio approfondito degli uccelli trovò un nuovo orizzonte libero, quando riusci ad uscire disse che si sarebbe occupato di “misurare le nuvole”. Un atto poetico, profondo che Fabre, artista per cui l’azione performativa è centrale, ha deciso di far realizzare alla sua scultura.
Il primo piano è l’agire dunque, alla ricerca di possibili o al gioco degli impossibili. Ma non solo. Vestito nell’identico modo di sempre, il volto di questa statua è un altro autoritratto. Un sè reduplicato nella sua stessa esperienza. E in quel sè (come anche nell’uomo che regge la croce) c’è anche la storia della sua famiglia, di una perdita: suo fratello Emile, scomparso a cinque anni, con un volto, di cui ha fatto ricostruire l’evoluzione, molto simile al suo.
L’assenza e l’infinito, la sofferenza e l’aspettativa, la galera come costrizione e la libertà come azione coesistono in un solo gesto: elevare lo sguardo.
Un invito che Fabre fà a tutti. Ancora. Usando il pregiatissimo marmo di Carrara, come una statua classica degna di un cortile, fa diventare l’uomo, oltre il suo peso marmoreo, leggero capace di stare perfettamente su uno scaletto, anch’esso in marmo (ha fatto diversi studi per realizzarlo) non perde la sua forza e la sua carica. Nonostante non sia la prima volta, non perde la sua forza e la sua carica. Dopo averla vista nell’omonima installazione del 2017 sempre al Madre, in bronzo silicio, in cui l’opera, risplendente, era sul tetto del museo, e anche dopo averla vista nel 2008 nell’installazione Il ragazzo con la luna e le stelle sulla testa in piazza del Plebiscito, stupisce di meraviglia, incurisisce, illumina gli orizzonti, ancora.
L’inaugurazione del 30 marzo, apre questo nuovo percorso, che insieme agli altri tra Museo e Real Bosco di Capodimonte, Pio Monte della Misericordia (tranne nei momenti della mostra di Caravaggio ) e Galleria Trisorio, rappresenta una bella occasione per un confronto diretto e irrimediabile con l’orizzonte di Fabre, che non lascia intatti dopo il suo attraversamento.