Non vede sua moglie e suo figlio da giorni, fa coraggio agli ammalati e canta con loro l’inno del Napoli. Del virus che ha paralizzato l’Italia e il mondo, con i «nonni» che è chiamato a curare, non parla. Lui è un infermiere, si chiama Vittorio Cuomo, ha 36 anni e arriva da Angri. Ha risposto all’appello della struttura sanitaria per anziani di Sant’Anastasia e ora passa con i pazienti tutto il tempo, per il resto se ne sta a casa, da solo. Senza i suoi affetti. Con più di cinquanta casi positivi al Covid – 19, quasi tutti anziani perciò categoria più a rischio delle altre, la residenza sanitaria di Madonna dell’Arco, in quarantena dal 26 marzo e in isolamento fiduciario ancor prima, non era meta ambita per infermieri e operatori. Dieci i morti finora riconducibili al coronavirus. L’Asl, il neo commissario per l’emergenza Antonio Coppola, il direttore Pasquale Adamo, il responsabile sanitario della struttura e quello che ne ha l’onere legale, ossia il priore dei Domenicani, Alessio Romano, lanciavano in quelle ore ripetuti appelli perché arrivasse in aiuto nuovo personale. I primi giorni di quarantena obbligatoria sono stati tragici, con un decesso al giorno. I nuovi infermieri ed operatori che prendevano servizio se ne andavano via poco dopo o non si presentavano per nulla, dopo aver preso accordi. Da sabato scorso, Vittorio fa parte del personale.
Ha lasciato il suo lavoro a Sorrento per rinchiudersi insieme a 50 positivi al Covid -19 e assisterli, come hanno fatto altri tredici nuovi operatori. «Ho lavorato a lungo sulle ambulanze del 118, ad Angri, a Sant’Agnello – racconta Vittorio Cuomo – prima di accettare l’incarico a Madonna dell’Arco mi occupavo del trasferimento di pazienti, a Sorrento. Avevo sentito parlar bene della Rsa di Sant’Anastasia e ho deciso che in un momento tanto difficile, accogliere il loro appello era mio dovere. Sono un infermiere, è il mio lavoro. Certo, sto pagando la scelta a caro prezzo, non vedrò mia moglie e mio figlio Gaetano, che ha solo cinque anni, per un bel po’ di tempo ma altrimenti non è possibile. Loro sono da mia suocera, li sento al telefono e quando il piccolo mi ha chiesto perché non fossimo insieme, gli ho risposto che sto facendo qualcosa di bello, per il suo e nostro futuro». La paura del contagio, pur con tutte le precauzioni, è uno spettro da tener bene presente. «Per fortuna abbiamo tutte le protezioni possibili, tute mascherine, occhialini, calzari, copricapo, un’organizzazione perfetta, siamo protetti e proteggiamo gli altri, spesso talmente coperti di dispositivi che non sappiamo nemmeno riconoscerci l’un l’altro. Non ho paura di questo. Ho paura del futuro, temo che in troppi ancora non si rendano conto del rischio, lì fuori. La paura passa, quando sono al lavoro, poi rientro a casa, da solo. E riesco solamente il giorno dopo. Vorrei dirlo a tutti, farglielo imprimere bene nella testa: devono restare a casa». Racconta, Vittorio, della giornata nella residenza in quarantena. Del suo arrivo al turno del mattino, sempre un quarto d’ora prima delle otto, del giro tra i pazienti, della temperatura controllata ad orari precisi, della collaborazione con gli operatori che danno da mangiare a chi non può farlo da solo e, nonostante tutto, dei momenti in cui si dimentica tutto per cantare l’inno del Napoli. Del controllo dei farmaci, poco prima di lasciare il turno per far sì che sia tutto in ordine per chi arriverà dopo». È in graduatoria per il Cotugno e il Pascale, Vittorio. Potrebbero chiamarlo anche da lì. Ora è in trincea, ma potrebbe capitargli la prima linea. «Non mi tirerei indietro» – dice. «Ma per ora sto qui, con i nonni che ho imparato già a conoscere. C’è uno di loro, si chiama Riccio, la mattina mi chiede sempre come sta Gaetano, mio figlio. E a me scoppia il cuore».