Appena trentatreenne. Walter Tobagi venne ucciso in via Salaino a Milano il 28 maggio del 1980. Quest’anno sarebbe stato il suo settantatreesimo compleanno.
Giornalista moderato per cultura ed educazione, arrivò all’apice della sua carriera professionale in un periodo animato da ciechi estremismi.
La sua analisi della società, sempre scevra dal pregiudizio, era in grado di tenere insieme tutti i frammenti del suo tempo per offrire narrazioni inclusive.
I suoi colleghi lo ricordano come un uomo dal carattere dolce ma inflessibile su concetti di onestà e rigore. Era disponibile con tutti, soprattutto con i colleghi alle prime esperienze editoriali.
Dal Corriere d’Informazione, passò nel 1972 al Corriere della Sera, dove poté esprimere pienamente le sue potenzialità di inviato sul fronte del terrorismo e di cronista politico e sindacale.
“Walter preparava gli articoli con la stessa diligenza con cui al Liceo faceva le versioni di latino e greco e all’università si dedicava alle ricerche storiche”, ha raccontato Leonardo Valente. “Una montagna di appunti, decine e decine di telefonate di controllo, consultazione di leggi, regolamenti, enciclopedie. Insomma svolgeva una mole di lavoro enorme per un pezzo di due cartelle. Ma quando finalmente si metteva alla macchina da scrivere si poteva esser certi che dal rullo sarebbero uscite due cartelle di oro colato. E se per caso, al termine delle sue ricerche e dei suoi controlli, si accorgeva di essere arrivato a conclusioni opposte rispetto a quelle da cui era partito, buttava tutto all’aria e ricominciava dal principio, senza darsi la minima preoccupazione della fatica e del tempo che impiegava. Il suo solo problema era di arrivare alla verità, a qualunque costo.”
Al Corriere della Sera si occupò di tutte le vicende relative agli anni di piombo e analizzando le vicende luttuose del terrorismo risaliva alle origini di Potere operaio, con la galassia delle storie politiche e individuali sfociate in mille gruppi, di cui molti approdati alle bande armate. Tobagi cercò di indagare fino in fondo le ragioni più recondite della violenza estremista e le relative personalità dei leader che la fomentavano. Di lui si disse che era caduto sulla frontiera della lotta al terrorismo la cui violenza politica sembrava invincibile.
Con cinque colpi di pistola esplosi da terroristi della Brigata XXVIII marzo (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano), fu ucciso Tobagi mentre andava a prendere la propria auto in via Solferino, la sede del Corriere. I suoi assassini erano, in buona parte, figli di famiglie della borghesia milanese.
Due membri del commando in particolare appartengono all’ambiente giornalistico: Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico Morando Morandini del quotidiano Il Giorno.
Esecutori dell’attentato Mario Marano e Marco Barbone, quest’ultimo diede al giornalista quello solitamente definito come il colpo di grazia esplodendo un colpo – quando Tobagi era oramai accasciato a terra – dietro l’orecchio sinistro. In realtà l’autopsia stabilì che il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpì il cuore.
Nel giro di pochi mesi dall’omicidio, Carabinieri e magistratura identificarono gli assassini. Il leader della Brigata Marco Barbone, poco dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, decise di collaborare con gli inquirenti e grazie alle sue rivelazioni l’intera Brigata XXVIII marzo fu smantellata e incarcerati più di un centinaio di sospetti terroristi, con cui Barbone era entrato in contatto durante la sua militanza terroristica.
Nelle vicinanze del luogo dell’omicidio, il 28 maggio 2005 è stata posta una targa in memoria del giornalista dalla Giunta comunale di Milano, accogliendo la richiesta dell’Associazione Lombarda Giornalisti, di cui Tobagi era presidente, e dell’Ordine del Giornalisti della Lombardia. Nella targa è riportato un passo di una lettera che Tobagi scrisse nel dicembre del 1978 alla moglie:
“ […] al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani […] per contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi.”