Era già allo sbando prima, non dimentichiamolo. Era già stata messa da parte, trascurata, offesa prima della deflagrazione dell’epidemia. Salvo brevi parentesi, tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno relegato la Scuola in una posizione marginale. È un fatto. Nessun governo è stato in grado di porre la Scuola al centro della sua agenda e dell’avvenire del nostro Paese. Non è allora un caso che nel contesto difficile e pieno di insidie della riapertura la Scuola sia restata nell’ombra e solo recentemente ricordata giustamente da più parti come una priorità assoluta. Non è facile sostenerlo con un Paese economicamente in ginocchio com’è il nostro dove le priorità tendono fatalmente a moltiplicarsi. Ma dovremmo avere lo sguardo e il pensiero lungo. Bisognerebbe provare per una volta ad essere giusti con la Scuola.
Da dove dovrebbe iniziare la ricostruzione di un Paese se non dalla Scuola? Il problema attuale non è solo quello relativo alla comunicazione di decisioni ministeriali incerte che disorientano per il loro carattere farraginoso. È un vero e proprio problema di pensiero. Pochi ancora pensano davvero che la Scuola sia il luogo dal quale fare ripartire il nostro Paese con slancio rinnovato. Pochi ritengono davvero che l’emergenza Scuola investa il modo decisivo il nostro avvenire.
Per questa ragione la necessaria riapertura della Scuola non ha solo un significato di sostegno vitale per le famiglie italiane, ma sarebbe l’indice di una volontà decisa di cogliere in questa tremenda emergenza l’occasione per una rivoluzione culturale. Non pensare più alla Scuola come un grande asilo sociale dove parcheggiamo i nostri figli in attesa che il mercato operi la loro selezione naturale, ma quello eticamente e culturalmente decisivo dove la vita dei nostri figli prende forma, viene educata alla cultura dell’integrazione, dello scambio, della ricerca.
Senza una buona Scuola un Paese è morto. È così difficile da capire? Non dovrebbero essere investite qui le energie economiche e umane più significative? In questa congiuntura traumatica la Scuola è rimasta schiacciata.
La cosiddetta didattica a distanza imposta dalla violenza del virus ha provato a supplire al vuoto che si è aperto. Le famiglie hanno dovuto vicariare con affanno la sua assenza. Una Scuola chiusa è però evidente che non è una Scuola. La Scuola dovrebbe sempre portare con sé la cifra dell’apertura come sua cifra fondamentale. Ci stiamo forse illudendo che la tecnologia possa garantire una didattica efficace rispetto alla vita reale della Scuola? Se pensiamo che la Scuola non sia solo trasmissione arida di sapere, ma trasmissione di cultura della cittadinanza, di pensiero critico, di desiderio di sapere, la definizione di “didattica a distanza” non può che apparire come una drastica contraddizione in termini o, come nel caso dei bambini, una pura astrazione.
Il rischio che percepisco è quello di un adattamento passivo a una situazione che contraddice l’essenza della vita stessa della Scuola. Non esiste trasmissione didattica del sapere se non attraverso una relazione umana. La vita della Scuola non si esaurisce solo nell’apprendimento poiché l’apprendimento accade sempre e soltanto entro una rete di relazioni e di incontri. Il sapere che dà forma alla vita è un sapere che non è mai scisso dalla relazione. La Scuola non è innanzitutto luogo della condivisione dei saperi, dei discorsi, dei volti? Non segna l’ingresso della vita del figlio nell’universo plurale delle lingue?
Anche per questa ragione è stato un errore non introdurre dispositivi simbolici anche minimi per sancire la promozione nelle scuole secondarie. Il nostro tempo è un tempo che tende a dissolvere il rituale e il significato simbolico della “prova” preferendo le scorciatoie, le illusioni di un successo rapido e senza verifiche. La Scuola ha invece il compito di ricordare che il tempo della “prova” è indispensabile a scandire un percorso di formazione. Non si tratta, dunque, solo di trovare le giuste misure tecniche per garantire una riapertura in sicurezza, ma si tratta di uno sforzo profondo di pensiero, della volontà politica di collocare la Scuola al centro della nostra ricostruzione. Si tratta d’inaugurare una nuova stagione culturale.
Perché la ministra non convoca degli Stati generali della Scuola composti dai docenti, dai dirigenti scolastici, dalle associazioni degli insegnanti, dai sindacati della Scuola e dagli intellettuali che hanno a cuore il suo destino? Per mobilitare e adunare le migliori energie del nostro Paese a spendersi sul suo futuro? Senza cultura,
formazione, ricerca un Paese è privo di avvenire. Non è anche questa una delle tante tremendissime lezioni che questo virus ci ha impartito?