I beni prodotti da un’impresa che opera in ambito edilizio (opere e manufatti), ai fini della loro iscrizione tra le rimanenze, sono soggetti alla disciplina dettata dall’art. 2426, primo comma, n. 9 cod. civ., il quale stabilisce che la valutazione di detti beni deve essere indicata in base al costo storico. La Commissione tributaria provinciale di Salerno, rigettava il ricorso proposto da una società avverso gli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Pagani, aveva rettificato la dichiarazione presentata dalla società per l’anno 2004 determinando un maggiore imponibile ai fini IRES ed IRAP in Euro 99.473,61, e procedendo alla liquidazione di maggiori imposte e sanzioni.
La Commissione tributaria regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, con sentenza n. 310/09/12, pronunciata il 2.5.2012 e depositata il 18.9.2012, accoglieva l’appello proposto dalla società ritenendo che í “lavori in corso’ di durata inferiore ai dodici mesi ricadessero nella disciplina del comma 6 dell’art. 92 T.U.I.R., che ne prevede specificamente la “valutazione al costo” e quindi tali prodotti dovevano essere valutati – alla chiusura di ogni esercizio economicofinanziario – in base alle spese sostenute nell’esercizio (costo specifico).
Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, cui la contribuente resiste con controricorso.
Con un unico motivo l’Agenzia ricorrente deduce “violazione dell’art. 92, comma 6, T.U.I.R. e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, lett. b) T.U.I.R.”, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 C.P.C lamentando che la C.T.R. aveva ritenuto corretta la valutazione delle rimanenze in base al costo specifico dei prodotti in corso di realizzazione alla chiusura annuale dell’esercizio economico-finanziario, senza tenere conto alcuno delle spese generali sostenute nel corso dell’esercizio stesso.
Il ricorso è stato giudicato fondato dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 17054 pubblicata il 13 agosto 2020.
“La C.T.R. – si legge nell’ordinanza della suprema Corte – ha ritenuto che ai fini della determinazione delle rimanenze nel caso di specie i “lavori in corso” aventi una durata inferiore ai dodici mesi, ricadevano nella disciplina del comma 6 dell’art. 92 T.U.I.R., che ne prevede specificamente la “valutazione al costo” ovvero che tali prodotti (lavori edili) dovevano essere valutati – alla chiusura di ogni esercizio economico-finanziario – in base alle spese sostenute nell’esercizio medesimo (c.d. costo specifico).
A tal fine va osservato che ai sensi del comma 6 dell’art. 92 cit., “i prodotti in corso di lavorazione e i servizi in corso di esecuzione al termine dell’esercizio sono valutati in base alle spese sostenute nell’esercizio stesso, salvo quanto stabilito nell’articolo 93 per le opere, le forniture e i servizi di durata ultrannuale”.
Invero, la disposizione anzidetta (art. 92 c. 6 T.U.I.R.) non prevede alcuna valutazione con riferimento ai “costi specifici”, ma in base alle “spese sostenute”; ciò in virtù della interpretazione letterale del termine “spese” che deve ritenersi più ampio e generico rispetto a quello di “spese generali” dì cui all’art. 110 primo comma lett, b) del T.U.I.R.
A differenza di ogni altro bene acquistato e rivenduto, i beni prodotti da un’impresa che opera in ambito edilizio (opere e manufatti), ai fini della loro iscrizione tra le rimanenze, infatti, sono soggetti alla disciplina dettata dall’art. 2426, primo comma, n. 9 cod. civ., il quale stabilisce che la valutazione di detti beni deve essere indicata in base al costo storico, dato dal reale prezzo di acquisto o dalle spese sostenute per la loro realizzazione, ovvero al valore di presunto realizzo, in base all’andamento del mercato di riferimento al momento dell’iscrizione, qualora inferiore al costo storico (cfr. Cass. Sez. V, 23.12.2019 n. 34410).
Con il riferimento normativo “in base alle spese” deve infatti ritenersi che il legislatore abbia inteso stabilire che non dei soli costi specifici, né delle sole spese specifiche, deve tenere conto il contribuente per valorizzare le rimanenze a fine esercizio, ma di un criterio che ponga a base del computo tutte le spese sostenute”.
“Appare quindi corretta”, afferma la Cassazione, “la deduzione dell’Ufficio secondo cui il costo di produzione doveva comprendere tutti i costi direttamente imputabili ai prodotti, comprensivi del costo base e degli altri costi di diretta imputazione relativi al periodo di fabbricazione, attraverso tecniche di determinazione del costo pieno (full costing), quali stipendi, salari riguardanti la mano d’opera indiretta, gli ammortamenti, le manutenzioni dei cespiti destinati alla produzione, i materiali di consumo utilizzati, ì consumi di energia, i servizi di vigilanza, ecc. La necessità di ricomprendere nei calcolo delle rimanenze anche tali spese deriva, infatti, dall’applicazione del principio della corretta rappresentazione del valore delle rimanenze finali che a fine anno concorrono alla formazione del reddito di esercizio; costi direttamente imputabili ai cantieri e quindi rilevanti ai fini della determinazione del valore delle rimanenze finali.
In conclusione, per una corretta interpretazione del comma 6 dell’art. 92 T.U.I.R., la C.T.R. avrebbe dovuto tener conto «delle spese sostenute nell’esercizio stesso», intese nel senso più ampio di «spese generali» di cui all’art. 110 comma 1, lett. b) del T.U.I.R., non limitato ai soli costi specifici o alle sole spese specifiche”.