Con la riforma costituzionale del Titolo V, il quadro normativo in materia sanitaria ha subito notevoli cambiamenti.
La l. n. 3 del 2001, riscrivendo l’art. 118 Cost, rimette le funzioni amministrative ai comuni a eccezione dei casi in cui, per assicurare l’esercizio unitario delle stesse, siano conferite ad altri enti.
Prima della riforma, infatti, l’attribuzione avveniva sulla base del c.d. principio del parallelismo secondo cui chi detiene la funzione legislativa ha competenza anche per quella amministrativa. Oggi, invece, si realizza applicando il c.d. principio di sussidiarietà secondo il quale le funzioni pubbliche devono essere assegnate agli enti più vicini ai cittadini e, dunque, a quelli comunali.
A tal proposito, l’art. 1 della l. 241 del 1990 specifica che l’espletamento delle funzioni amministrative si sostanzia nell’esercizio di poteri volti al perseguimento di interessi pubblici.
Invero, in materia sanitaria, i comuni sono titolari di poteri autorizzativi per la realizzazione di strutture socio – sanitarie e per l’esercizio di attività medica.
Ai sensi dell’art. 8 – ter del D. lgs del 30 dicembre 1992 n. 502, le autorizzazioni comunali hanno infatti ad oggetto la realizzazione di sedi con finalità sanitarie e socio – sanitarie operanti in regime di ricovero ospedaliero o residenziale, oppure eroganti prestazioni riabilitative, di diagnostica strumentale e di laboratorio.
Eventuali progetti edilizi saranno, pertanto, sottoposti al vaglio comunale per quanto riguarda il profilo urbanistico e necessiteranno di una verifica da parte della regione in merito alla compatibilità degli stessi con il complessivo fabbisogno locale e l’idonea collocazione territoriale. Si tratta, dunque, di una valutazione discrezionale che entrambi gli enti dovranno rilasciare al fine di verificare l’adeguatezza dell’immobile in rapporto al contesto urbano in cui dovrà sorgere nonché l’effettiva coerenza tra il progetto proposto e l’offerta di servizi già esistenti nell’area interessata.
Il comune, ai sensi del D. l. n. 1 del 2012, è chiamato altresì a individuare le zone nelle quali è possibile collocare nuove sedi farmaceutiche al fine di assicurare un’equa distribuzione delle stesse tenendo conto, al contempo, dell’esigenza di garantire l’accessibilità del servizio farmaceutico ai cittadini residenti in aree scarsamente abitate.
Il numero delle farmacie è, pertanto, programmato per mezzo di una pianta organica comunale organizzata secondo un criterio demografico in base al quale i singoli esercizi dovranno essere collocati a una distanza non inferiore ai 200 metri gli uni dagli altri e le autorizzazioni concesse dovranno essere in proporzione di una ogni 3.300 abitanti.
A tal proposito, con la sentenza n. 603 del 2015, il Consiglio di Stato ha circoscritto l’ambito operativo comunale. Ha, infatti, specificando che al comune non compete individuare l’esatta collocazione dei nuovi presidi farmaceutici ma solo l’area dove gli stessi dovranno sorgere. La pianta organica, in effetti, limita il titolare della sede farmaceutica a collocare la struttura in una determinata zona e non in un luogo o in un immobile specifico.
Si evidenzia che il comune, oltre a rilasciare le autorizzazioni, può esserne anche il titolare. E’ il caso delle c.d. farmacie comunali. In tali ipotesi, l’ente – ai sensi della l. 142 del 1990 – può assumere la titolarità delle sedi farmaceutiche vacanti o di quelle di nuova istituzione sottostando a dei vincoli gestionali espressamente previsti dalla legge.
L’ art. 13 della l. 833 del 1978 attribuisce, altresì, al Sindaco – in qualità di autorità sanitaria – la facoltà di disporre dei c.d. Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) e cioè, di procedure mediche normate che prevedono specifiche tutele.
In questi casi, l’ordinanza sindacale può essere emessa esclusivamente in presenza di due certificazioni attestanti un’alterazione psico-fisica del soggetto interessato tale da renderlo pericoloso per sé o per gli altri nonché la necessità di urgenti interventi terapeutici a cui, quest’ultimo, rifiuta di sottoporsi.
Entrambe le condizioni richieste (e cioè, lo stato di alterazione e il rifiuto al trattamento sanitario) dovranno sussistere contemporaneamente, essere certificate da medici (non necessariamente psichiatri) e confermate successivamente da un sanitario del servizio pubblico.
L’ordinanza, a pena di decadenza, dovrà essere convalidata dal Giudice Tutelare nelle successive 48 ore e il trattamento avrà una durata di 7 giorni con possibilità di proroga.
Il primo cittadino, infine, in qualità di rappresentante della comunità locale potrà emanare – ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. del 18 agosto 2000 n. 267 (T.U.E.L.) – provvedimenti urgenti al verificarsi di situazioni di particolare gravità che interessano l’igiene e la sanità pubblica.
In merito, il Consiglio di Stato, con sentenza del 13 ottobre 2003 n. 6168, ha specificato che per l’adozione dei c.d. provvedimenti contingibili e urgenti – ai sensi dell’art. 38 della l. 142 del 1990 – deve sussistere un pericolo concreto di danno imminente tale da non permettere il differimento dell’intervento in altra data nonché l’oggettiva impossibilità dell’ente a provvedere all’urgenza con i mezzi ordinari previsti dal nostro ordinamento.
L’emanazione dell’ordinanza richiede, pertanto, la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave e imminente per l’incolumità pubblica non contrastabile con gli strumenti di amministrazione ordinaria.
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