Provincia addormentata o sognante. Specchio invisibile o volti vissuti oltre l’oblio. Michele Prisco resta uno scrittore riferimento. A cento anni dalla nascita. Anzi, un vero scrittore che ha sempre legato il travolgere, o l’avvolgere, dei personaggi non alle forme, o agli ambienti, bensì ai destini.
In un sommerso orizzonte, in cui la lingua ha la sua importanza in una eleganza fuori gli stereotipi, il raccontare è da leggersi come un narrare dove la letteratura è la vita stessa.
Aveva perfettamente ragione Carlo Bo. In Prisco il dettaglio ha la sua percezione e quindi la sua perfezione. Sia nel romanzo che in quel suo fare giornalismo, dettato da un appiglio di cronaca ma definito in un preciso affresco di vita, appunto, e di letteratura, il raccontare era tutto.
I suoi romanzi, a volte in una elegante solitudine, non sono la descrizione, o una descrizione, ma una impeccabile metafora, dove il reale si trasforma in un invisibile sguardo nel tempo che sa di nascere dalla memoria e dal ricordo. Il reale non cerca il vero. Perché la letteratura non è reale e tanto meno vero. Mistero certamente sì. Il mistero ha sempre di fronte l’altro aspetto del destino. Ovvero l’invisibile, che, però, attraversa gli occhi che non restano addormentati ma sognanti.