“20 ottobre – le immagini, girate all’esterno del centro commerciale Campania di Marcianise, Caserta, mostrano centinaia di persone in coda all’esterno di un noto outlet di arredamento”
“27 novembre – alle 10 in punto, all’interno del Centro Commerciale Maximo a Roma. Lunga la fila di clienti presenti, già dalle prime ore del mattino, fuori dallo store. Tutti desiderosi di varcare per primi la soglia di Primark, sicuramente tra le novità più attese del nuovo centro commerciale in zona Laurentina.“
Questi sono alcuni titoli presi dalle testate giornalistiche delle ultime settimane, in piena restrizione, in piena desolazione mi viene da dire.
E cosa accadrà per gli acquisti natalizi? Quando a farla da padrona sarà il bisogno impellente del nuovo cellulare o di altri bene di lusso? Dove faremo le file? Avrà importanza rischiare il contagio?
Cosa stiamo inseguendo, cosa ci fa sentire comunità?
Sempre più la necessità di identificarci, di sentirci uguali, sta creando una omologazione culturale che fa spavento quanto la pandemia.
Il governo ha chiuso gli unici posti sicuri, quelli dove il rischio era scongiurato al 95%, teatri e musei.
Gli unici luoghi dove ad arricchirsi sono la nostra mente, la nostra sensibilità.
Quello che serpeggia tra le diverse generazioni, è un senso di insicurezza, disorientamento, incertezza, perdita di identità e di ideali, indebolimento del sentimento di solidarietà e della memoria storica, che con la pandemia, con l’inevitabile isolamento non può che acuirsi.
Il disagio sociale, ormai non più prerogativa dei giovani, può considerarsi come l’humus esistenziale che genera spesso comportamenti devianti, antisociali, di rottura con le norme e le regole del vivere civile in una società democratica.
Si vive il presente con un sentimento di “consumare” la vita per soddisfare il “bisogno” di apparire, di sentirsi qualcuno, di colmare il vuoto della solitudine e dell’insicurezza.
Allora caro governo, dovresti essere lungimirante con le tue persone, con i tuoi cittadini e prenderti cura di un intero paese che tra i rischi che corre c’è quello della perdita di identità e di idealità. La morte delle “ideologie”, come “utopie benefiche”
Un processo di omologazione culturale, principalmente basato su stereotipi, su ciò che molti anni fa Roland Barthes definiva “miti d’oggi”.
Il sistema culturale è fermo e con lui è fermo il conforto, la possibilità di vedere la luce in fondo al tunnel.
Noi siamo una comunità e questa impossibilità di esercitare il rito “dello stare insieme” è esso stesso la malattia.
Favorire una attività teatrale, culturale favorisce il sentirsi “persona” con i propri pensieri, sentimenti, emozioni, cultura, visione del mondo.
Stimola all’idealità e all’identità, ti fa acquistare fiducia nei confronti degli altri e della realtà.
Se solo ai poeti, ai filosofi , agli artisti fosse data la parola, quella che conta, quella che fa prendere decisioni al governo sulle sorti del Paese, allora potremmo parlare di democrazia, di lungimiranza, di crescita.
Per andare avanti, non dovremmo mai scordarci da dove siamo venuti.
C’è stato un tempo in cui l’umanità che non possedeva la minima nozione scientifica, affidava alla poesia l’incarico di spiegare l’origine e la natura del mondo, e ci regalò Dei e Miti.
Rischiare la vita propria o quella degli altri per un cellulare o un paio di scarpe in una pandemia mondiale ci deve far capire quanto siamo affamati di trovare un senso alle nostre esistenze, e un governo che ama il suo popolo deve saperlo nutrire con coscienza.
SIMONA TORTORA