Ho dovuto cercare tra le mie carte per trovarlo. Eccolo! il bianco cartoncino-ricordo della prima comunione: “Santa Maria del presepe, 27 giugno 1976”. E’ strano ma sul cartoncino il nome anagrafico di ‘Aniello’ è stato confuso con ‘Agnello’. Il ricordo della prima comunione me lo ha dato mia madre, quando ero già frate professo. Lo aveva trovato tra le foto di famiglia che aveva portato con sé quando aveva raggiunto papà, a Bardolino sul Garda, trasferendosi col resto della famiglia, dopo il terremoto del 1980.
A ‘Santa Monica’ per tutti ero Nello, Nellino. Forse l’errore del nome è stato di zia Cocca: era lei che presiedeva alla preparazione delle Prime Comunioni. Certo, c’era Emilia, la mia catechista, ma zia Cocca era l’indiscusso regista.
Ho avuto la fortuna di incontrarla qualche anno fa, poco prima che ci lasciasse. Per puro caso, a Pagani nella Chiesa della Purità, a due passi dalla casa che avevo abitato prima che la mia famiglia andasse a vivere a Nocera quando avevo quattro anni, in Via Origlia n. 80. Ti ricordi, ti ricordi, Nellino? continuava a ripetere. Certo che mi ricordo, la rassicuravo: ricordare significava don Gaetano e gli anni da me trascorsi tra corse e partite di pallone sui basoli di via Origlia e le funzioni, in ginocchio, sugli scalini dell’altare di Santa Maria del presepe.
Le immagini che conservo di don Gaetano non sono una foto sbiadita, è un film a colori. Quelli accesi degli anni 70. Aveva un portamento dignitoso e semplice, il sorriso benevolo e due occhi sereni e vigili, uno sguardo intelligente e un po’ mesto, che prestava attenzione a chi aveva davanti, anche a un bambino come me. Era un uomo di cultura ma ero troppo piccolo per poterlo capire, quello che diceva però lo capivo bene perché nelle prediche parlava facile e si presentava modesto, senza la spocchia del professore.
Ricordo che molta gente andava a parlare con lui, la gente normale ma anche quelli che abitavano nei ‘palazzi’ (noi ragazzini che abitavamo e scorrazzavamo ‘int’ ‘e curtìne’ dei portoni di via Origlia le facevamo queste distinzioni). Nel confessionale, vicino alla sacrestia, o nell’ufficio parrocchiale, in fondo alla chiesa dove adesso è il battistero: quel lungo corridoio della chiesa gliel’ho visto fare tante volte avanti e indietro. Raramente faceva quello parallelo. Là ci stava l’organo e, accanto, la stanzetta con le statue dei santi e della Madonna delle funzioni di Maggio, la Madonna della cintura, perché poi della cintura nessuno me lo seppe spiegare… non avevo chiesto a don Gaetano! Quello era uno dei miei luoghi preferiti, ci passavo molto tempo. Quando avevo gli smarts ne offrivo uno a ciascuna statua, glieli lasciavo ai piedi. All’Ecce homo due, era il prediletto.
Don Gaetano aveva un bell’accento e un tono di voce dolce e pacato, ma all’occorrenza anche fermo ed energico. E chi se lo scorda! Una volta mi ha rimproverato e non mi ha fatto servire messa. Eravamo una torma di vandali in sacrestia, ogni domenica a predare le tarcisiane dall’armadio – che non lasciavamo mai in ordine – tra gli strilli di quel povero vecchio di zi’ Ciccio il sacrestano. Quel giorno mi era toccata una di quelle tuniche che non piaceva a nessuno e insistevo per avere quella di un mio compagno: la sua era di quelle belle, con i nastri rossi fluttuanti, cuciti solo con un punto sulla tunica bianca alle spalle e alla vita. La mia, invece, era tutta lisa e aveva le strisce tutte cucite avanti e dietro. Non gli piacque proprio che pretendessi la tarcisiana del mio vicino. Mi fece spogliare e uscire. Era attento a ciascuno di noi e non tollerava che assumessimo questi atteggiamenti tra compagni.
L’atmosfera che si respirava in parrocchia, attorno alla persona di don Gaetano, era di grande fiducia e rispetto e non l’ho mai percepito distante da qualcuno. Aveva grande equilibrio nel tenere i rapporti con tutto quel presepe di umanità che erano i suoi confratelli presbiteri e la comunità dei collaboratori e dei parrocchiani. Certo, per quello che poteva ponderare un ragazzino tra i cinque e i nove anni, perché di quest’età stiamo parlando. Ma che fosse un presepe di umanità quello che mi circondava e a cui appartenevo è vero.
C’erano i più svariati personaggi e un’umanità variopinta che mi diverte ancora ricordare. Molti legati a via Origlia… i portoni, le famiglie, i compagni di gioco. A via Origlia viveva anche don Benedetto: sempre in clergymen, con la sua plombe, e che ha continuato affettuosamente a chiamarmi Nellino anche quando sono venuto in parrocchia a celebrar messa. Altri preti che frequentavano la parrocchia erano l’anziano Monsignore (per noi era Monsignore e basta, non ne ho mai conosciuto il nome), che predicava per mandare in tilt i microfoni tuonando contro i tempi moderni. Il prete dai capelli bianchi e cappello a saturno della messa delle nove in latino. Il frate che arrivava in bicicletta. Avevo davanti agli occhi, senza avvertenza, la Chiesa che muoveva i primi passi del post concilio: posizioni ed idee forti ma rapporti amicali in un clima sereno, da persone intelligenti. Per dirla in un linguaggio più appropriato, una bella e composita comunione sacerdotale.Ora, questa mia testimonianza su don Gaetano Ficuciello, è una testimonianza che non lo ricorda da solo, lo ricorda – come un grappolo o una spiga – circondato da persone e in mezzo a una comunità. E così ve la consegno. Sono ricordi vividi di un ragazzino che a quell’età riceve impronte, come sulla cera. Non sono un elefante, ma se ho conservato buona memoria è perché le tracce sono profonde, una memoria interiore che nel tempo ha anche razionalizzato e riempito di significati quei ricordi, senza trasfigurarli. E ancora lui, don Gaetano, fu il punto di riferimento quando il giorno di san Prisco la processione del santo patrono sostò davanti al n. 80 di via Origlia. Vidi uno che non vestiva come lui, mi avvicinai e chiesi: perché sei vestito così strano? E quell’omone dall’apparenza burbera mi rispose: perché dici strano, è l’abito di san Francesco! E dove abiti? Al convento di sant’Antonio, vieni a trovarmi. L’omone era padre Guglielmo, e da quel giorno cominciai a frequentare la fraternità che un giorno avrei abbracciato.
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