Ieri sera gli inglesi hanno scoperto che gli Italiani non sono un popolo di camerieri. E neanche di boy toys. I giocatori sconfitti ne sono rimasti così indispettiti da togliersi dal collo la medaglietta di partecipazione al torneo in faccia al delegato Uefa che gliel’aveva appena infilata. Gesto indegno di uno sportivo. E anche di una persona minimamente educata. La grande Elisabetta non merita di avere sudditi così inurbani, così drammaticamente sprovvisti di autocontrollo e di fair play. Forse, vedendo la tv, avrà amaramente scoperto anche lei che il suo popolo non solo non sa sempre vincere, ma spesso non sa neanche perdere.
Ha colpito questo inedito episodio, perché proprio in questi giorni – e in particolare ieri sera – la testimonianza immediata della tivù mostra che lo sport è fatto non solo di forza e di tecnica, ma soprattutto di Cuore. Mai come in questo periodo è tornato d’attualità il titolo di quella specie di antologia dei buoni sentimenti che Edmondo De Amicis scrisse per affratellare gli Italiani post-unitari.
Al Tour e al Giro come a Wimbledon si abbracciano gli avversari, sui campi di calcio si avvinghiano neri e bianchi che pochi attimi prima si tiravano calcioni e sgambetti. E si piange: si piange di commozione o di tensione nervosa, si piange per la gioia di dedicare al nonno quella maglia gialla che non indossò mai, si piange di gioia per aver trasformato in trionfo il disastro di un gol subìto dopo due minuti. Sul palco per la premiazione il capitano fa sfilare per primo l’infortunato: “Spina” con le stampelle come Enrico Toti. Il duro che non piange mai è un eroe sepolto: oggi – come ha detto qualcuno – bisogna essere veri uomini per saper piangere senza vergognarsene.
Piangevano, abbracciatissimi, ieri sera anche Vialli e il Mancio. E secondo me è proprio la loro storia umana alla base dell’incredibile trionfo di Wembley. Quando giocavano nella Samp il divo era Gianluca Vialli, cremonese di ricca famiglia, riccioluto e bello come un donzelletto del Caravaggio, cannoniere infallibile. Roberto Mancini, modesto marchigiano, tecnicamente bravo ma non protagonista, era una seconda monta. Ma al contrario di Vialli, un po’ superbo, conosceva l’arte di farsi voler bene: “Dovetti impararla – mi confessò un giorno – quando la mia famiglia accettò che a quattordici anni andassi a vivere a Bologna in un pensionato per aspiranti calciatori: mi costò amari momenti di solitudine, ma imparai a stare al mondo”.
La vita dopo anni cambiò i destini. Una bruttissima malattia troncò a Vialli la carriera di allenatore internazionale, lo costrinse a combattere con la morte e a perdere i riccioli con le cure più devastanti. Smagrito, Vialli scomparve anche dagli schermi televisivi dove commentava le vicende del calcio. Il divo della Sampdoria e della nazionale rischiava di diventare un ex calciatore isolato, se non dimenticato. E questo, il Mancio, non poteva accettarlo. Ingaggiato dalla Federcalcio come commissario tecnico della nazionale, Mancini volle dare un ruolo bene in vista all’amico meno fortunato e pose per prima condizione un contratto a Gianluca Vialli come suo assistente personale. Gli fu concesso. Mancini riebbe il “fratello di calcio” che aveva avuto nella Sampdoria e che gli aveva tirato tante volte la volata del gol. E ieri sera, avvinti nell’abbraccio del trionfo, hanno pianto insieme l’uno sulla spalla dell’altro. Le vere amicizie sono per sempre.
È questa storia molto umana che ha ingigantito l’ammirazione degli azzurri e cementato il loro affetto per il commissario tecnico. In essa hanno letto la fedeltà dell’amicizia, la solidarietà umana, il valore del gruppo, le generosità come dovere morale, l’impegno reciproco. Una lezione di vita, prima che di calcio, impartita senza dirlo da Roberto Mancini. Ne parlo perché l’esempio raggiunga tutti, suggerendo qualche riflessione. Anche i più distratti. Lo Sport con la esse maiuscola è fatto anche di questo. Anzi, specialmente di questo.
(racconto calcistico del maestro Gianni De Felice)