Recensione – Maradona, Pennac, Napoli e il teatro. Nella giornata conclusiva del Campania Teatro Festival (della sezione di luglio), c’è uno spettacolo che fin dalla sua genesi è indubbiamente ispirato: è stato costruito partendo da un omaggio a Maradona, idea sviluppata a e per Napoli proprio in questi mesi con una selezione di attori locali. Si tratta di Ho visto maradona, un viaggio che vede protagonista Daniel Pennac, anche in scena nella veste di scrittore-personaggio, guidato dalla regia di Clara Bauer che ha contributo al progetto insieme a Pako Ioffredo, Ximo Solano (anche in scena). Sa di fortunata coincidenza mistica il fatto che la prima e unica (a parte un’anteprima stampa) rappresentazione, l’11 luglio, sia caduta proprio il giorno conclusivo degli Europei, quelli del trionfo italiano. E non sembra un caso neppure che si citi Raffaella Carrà che canta in spagnolo, proprio nei giorni della sua dipartita, anche se era prevista da sempre la presenza di questo personaggio. Insomma già per questo lo spettacolo va ricordato come un percorso speciale tra passione calcistica e i personaggi- ‘culto’ molto vivi in questo giorno.
In un costante e rocambolesco cambio di toni, di colori, di vivacità sportiva, vissuta in una coralità che sa di Napoli, lo spettacolo si pone, come racconta lo stesso Pennac, l’obiettivo di riuscire a spiegare a lui l’Effetto Maradona. Tutto parte dalla considerazione dell’autore-personaggio Pennac che la morte di Maradona ha suscitato tristezza e pianto, anche nei suoi amici attori. Un dolore forte e sentito da cui nasce la volontà di sublimare questa perdita in uno spettacolo che possa raccontare, riproporre il senso di questo legame profondo. Ma forse poco importa capire se ci è riuscito, perché tutto passa attraverso l’occhio meditante di Pennac, che forza un po’ le situazioni per tirarne fuori altri punti di vista. E così se resta pienamente la capacità di rendere l’estremo che c’è nella passione calcistica, nella ‘divinizzazione’ di un calciatore, a volte più che la poesia e il profondo si tocca un evidente senso caricaturale. Come nei gesti dei tifosi, come quando una donna che si lamenta perché la partita distrae dal lavoro di preparare il pranzo importante per poi lei stessa diventa una donna innamorata folle del Dios. Oppure tocca momenti di immersione nei toni del calcio che vengono rappresentati dalla cronaca della partita Argentina-Inghilterra negli anni delle Falkland, a cui fa da eco l’inizio, in cui la telecronaca con dovizia di particolari che viviseziona in parole una emotività anestetizzata. dell’ultima operazione a Maradona.
La dimensione onirica permette di saltare di scena in scena, di movimenti convulsi e collettivi in movimenti solitari, in cui lo scrittore che qui diventa personaggio riesce a fare da collante con la sua ironia e con la sua poesia. I salti nel mondo letterario si raccordano fino a Dante, citato anche nella volontà di riuscire a vivere un percorso di conoscenza nel mondo dall’inferno al purgatorio dell’amore per Maradona, statua, icona, santo. Profonda l’interpretazione di piccoli frammenti. Come immancabili salti in uno squarcio di realtà diseredata diventano poesia e riflessione, partono da un sogno-racconto. Quello di un angelo che ottiene il peromesso, una sola volta, di scendere nell’inferno dove vuole tornare perché si è divertito tanto. Ma la seconda volta lo scenario è totalmente cambiato e la spiegazione sa di freddura francese perché tutto nasce dalla confuzione tra la condizione di turista e di migrante. E questo mondo del migrante, dell’ultimo viaggio verso la speranza viene raccontato da un personaggio che indossa la tipica coperta dorata e che in francese, reso anche con una traduzione in scena di grande impatto, parla della storia e della fine di Bubakar disidratato in mare, vero e proprio deserto.
Il Mondo di Maradona
Forse no, forse con questo spettacolo non si è riusciti a spiegare il convinto e appassionato mondo di Maradona come pulsa nel cuore dei suoi tifosi, certo non per quei tifosi che non si sentono rappresentati dalla sola caciara o dalla forma, ma resta la poesia di un gesto. La poesia di un tentativo di conoscenza, di ironica visione delle sfaccettature a cui anche un ‘santo’ dal sapore mitico può arrivare. Come un bambino che è Diego con la sua speranza di sogno di giovane, o con l’affiatamento corale di rimandi, musiche e salti anche nel mondo ispanico, con la spiegazione di una canzone semplice ma contagiosa come “Oi Mamma , mamma, mamma sai perché mi batte il corason?” Una canzone, anch’essa minimal , che resta nel ritmo di tutti coloro che hanno vissuto il contrastato mito d El Pibe de Oro e di cui non potranno forse mai spiegarne a parole l’efflato.