“Il nome. Il valore di un intellettuale lo misuriamo quando ci mancano le parole. E per dire quel che non riusciamo a spiegare le cerchiamo tra quelle dette da qualcun altro. Lavoro da due anni a uno spettacolo su Pasolini e sono due le domande che mi fanno sempre: chi l’ha ucciso? cosa avrebbe detto oggi? Alla prima rispondo con il risultato del processo e le parole che Graziella Chiarcossi disse in un’intervista, cioè che c’è “un’unica certezza: l’assassino non era da solo”.
La seconda domanda è più sbarazzina perché è declinata in molti modi. Tipo: come si relazionerebbe con internet e in particolare con tutto il suo universo video dal cinema d’autore al porno? Che posizione prenderebbe rispetto ai migranti? Cosa direbbe di Berlusconi e Grillo? Meloni e Salvini? Trump e Biden? Putin e Xi Jinping?
Fortunatamente Pasolini è nato nel 1922 e se oggi fosse vivo avrebbe cento anni. Dunque è probabile che sarebbe poco lucido e nessuno gli darebbe retta. E se invece non fosse rimbambito? Continuerebbe a far discutere, a prendere posizioni scomode come fece con aborto e divorzio. O quando chiese di processare “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani”.
O quando disse agli studenti che avrebbero dovuto tradire la loro classe borghese, fare la rivoluzione con le classi subalterne e andarsi a riprendere il PCI.
In aggiunta a queste domande il mio interlocutore conclude quasi sempre dicendo che oggi non esiste un intellettuale come Pasolini. Sono tutti opinionisti televisivi o sbarcati nella rete, servi del regime. Così mi tocca fare almeno una piccola lista di persone che non sono affatto di questa specie. Alcuni li ho intervistati in questi anni per capire come raccontare il presente fuori o dentro il teatro. Per esempio Franco Lorenzoni, il maestro che quarant’anni fa ha fondato ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa. O Christian Raimo che da qualche anno è impegnato anche come politico sui generis nel territorio del III Municipio romano. Uno di loro, lo storico Angelo D’Orsi candidato sindaco di Torino, è anche l’unico che io abbia mai sostenuto per un’elezione. Ovviamente c’è padre Alex Zanotelli che è tornato dall’Africa per evangelizzare l’Europa e sta in prima linea per il disarmo, per l’acqua pubblica a partire dal Rione Sanità dove è venuto a fare il missionario. E poi c’è Luigi Manconi.
Ieri lo stesso Raimo lo ha indicato come la persona che vorrebbe vedere al Quirinale perché “ha un’evidente credibilità istituzionale. Da Presidente in carica della Commissione dei diritti umani al Senato ha svolto un’attività esemplare su temi delicati come il carcere, l’immigrazione, la questione della discriminazione dei rom, il diritto alla cura, le tossicodipendenze…”. E io sono d’accordo!
Il valore di un intellettuale lo misuriamo quotidianamente quando ci mancano le parole. Per chiarirci i pensieri, per dire qualcosa che non riusciamo a spiegare dobbiamo andarle a pescare tra quelle dette da qualcun altro. Penso alla paura crescente che proviamo nei confronti dei più poveri. Non io o il lettore di questo articolo, forse. Non precisamente. Ma “noi” abitanti della parte ricca del pianeta. Manconi mi spiega che questo fastidio nasce dal rimosso. Quella operazione psichica che ci porta a respingere le immagini che ci provocano angoscia, sensi di colpa. Per esempio “il rom rappresenta in qualche misura, magari la più esile, la più arcaica, una parte di noi e della nostra esperienza di esseri umani” mi dice in un’intervista di un anno fa. Ma questa “rimozione è un’operazione vana perché ciò che essi rappresentano… la follia, la marginalità, la devianza, la trasgressione, la decadenza, l’impoverimento, l’indebolimento sono tutte esperienze che noi potremmo fare. Sono tutte condizioni di vita che stanno dentro la nostra vita e le nostre relazioni di vita”.
Ecco perché troviamo Manconi accanto a Ilaria Cucchi nella battaglia per suo fratello Stefano. Perché qualcuno lo ha definito “tossicodipendente in fase avanzata, anoressico e sieropositivo” e lo ha rimosso, ci ha fatto credere che la sua storia non ci interessava. Per lo stesso motivo lo troviamo accanto alla mamma di Federico Aldrovandi, ai genitori di Davide Bifolco e alla moglie di Michele Ferulli. Lo vediamo battersi per mettere in mare le navi che vanno a salvare i migranti e anche per raccogliere i soldi utili alla causa di Riace e Mimmo Lucano. Lo ritroviamo nella battaglia per una legge seria contro la tortura, per il superamento dei campi di concentramento che chiamiamo carcere, manicomio, campo nomadi. Sì, anche per Abolire il Carcere che è il titolo di un libro che ha scritto con Anastasia, Calderone e Resta. Non è una provocazione, ma il tentativo di rimettere al suo posto una questione che viene troppo spesso rimossa. Quando consiglio di leggere quel che c’è scritto mi capita di sentirmi rispondere “non faccio manco la fatica di comprarlo un libro con quel titolo”. E io so per quale motivo. Perché troppe persone hanno paura di essere d’accordo con Luigi Manconi e le sue ragionevoli proposte.”