
Qualche anno fa, durante un viaggio di lavoro in Kenya, a Nairobi, mi sono trovata immersa nel purgatorio di quei posti del mondo dove i poveri vivono per strada accampati in qugli spazi non delimitati dal filo spinato, si lavano nei fossi dove le case dei “ricchi” scaricano acque putride e camminano a piedi per chilometri perché i “matatu” (i bus locali) o sono troppo costosi per le loro tasche o troppo pericolosi.
Le donne, mi raccontava il taxista, rischiano di essere violentate e quindi, preferiscono andare a piedi. Queste immagini sono quelle che mi ritornano in mente ogniqualvolta, spostandomi in auto, incontro ragazzi fermi all’angolo di una strada a fare l’autostop, persone che con zaino in spalla si spostano a piedi da una città all’altra rischiando di essere investiti a causa della scarsa illuminazione, dell’assenza di marciapiedi e via dicendo.
Potrei scrivere dell’amica rapinata presso una stazione ferroviaria, della signora che ho rischiato di investire a cui poi ho dato un passaggio, delle ore trascorse alla fermata in attesa di un autobus, dei treni soppressi, delle traversate in autobus per raggiungere Napoli, ma sono altre storie.
“vabè ci vuole un po’ di organizzazione e tra bus e treno ce la si fa”, provateci.
Mi chiedo se è davvero così distante quell’Africa dalla nostra società in cui ci sono persone con l’auto che inquinano, sfrecciano, intasano le strade, e gli “appiedati” che, probabilmente senza altra scelta, devono tornare a casa da lavoro, da scuola.
Probabilmente no.
Nell’era della transizione ecologica, dei fondi per la ripartenza, delle smart city, abbiamo l’opportunità di sanare questo divario e rendere le nostre comunità inclusive, sicure, sostenibili e per farlo occorre distogliere lo sguardo dai nostri smartphone, abbandonare ideologie campanilistiche e percorrere le strade delle nostre città a piedi o, ancora meglio, su una sedia a rotelle o con un passeggino.
Occorre progettare un sistema di mobilità comprensoriale e cioè riferito ad una porzione di territorio definita, l’Agro Nocerino Sarnese, ad esempio, così come oggi finalmente si è iniziato a fare nell’area metropolitana di Napoli.
Le città sono sistemi interconnessi all’interno delle quali le persone si muovono per lavoro, studio, tempo libero, a seconda delle opportunità che le stesse offrono. Eppure, meno connessioni ci sono e meno opportunità si creano, per le persone così come per le attività commerciali.
Quante strutture ricettive potrebbero nascere se le due Nocera potessero essere servite da un efficiente sistema di trasporti che consentisse ai turisti della vicina Pompei di immergersi nello “slow tourism” che potremmo offrire tra Castelli, necropoli, battistero e sentieri?
Quante persone potrebbero accettare opportunità di lavoro potendo raggiungere il posto di lavoro con i mezzi di trasporto pubblico?
Quante famiglie potrebbero far proseguire gli studi ai propri figli iscrivendoli agli Istituti Superiori?
Quante persone non si sentono sicure di percorrere le strade a piedi o in bici?
Sembra banale, assurdo, ma non lo è.
Sono problemi comuni di persone comuni che sembrano non interessare a chi amministra le città e che, invece, scelgono ancora intese politiche in base a simpatie o antipatie e non a ciò che è bene per la propria comunità che, anche se lo si tiene presente, è inserita indissolubilmente in un territorio: residenti di Nocera Superiore hanno bisogno di raggiungere l’Ospedale di Nocera Inferiore, giovani residenti nelle periferie di Scafati di studiare ad un Professionale di Nocera Inferiore, insegnanti di Mercato San Severino lavorare a Battipaglia, avvocati di Cava dei Tirreni arrivare al Tribunale di Nocera Inferiore… e di storie ce ne sarebbero tante: quelle di tutti i giorni che possono essere scoperte scorrendo post e commenti dei gruppi facebook dei pendolari disperati e quelle che potrebbero essere e non saranno finché “qualcuno” non avrà chiaro che amministrare una città, al giorno d’oggi, in un territorio come il nostro, è una missione da svolgere con profondo senso del dovere e di responsabilità perché qui, non si vive, si sopravvive.