In questi giorni, per quei strani incroci scolastici, sto preparando una lezione sull’epistola di Petrarca in cui si narra la sua ascesa al Monte Ventoso e contemporaneamente in quinta stiamo lavorando su La coscienza di Zeno di Svevo. E mentre preparo questo sto leggendo, per diletto e per preparare un articolo, alcuni saggi che hanno a che fare con la coscienza e/o il linguaggio (Che ne sarà dei corpi? di Pennisi, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Jaynes, l’Etica di Spinoza e Il Salto della Ferrara), quello che mi colpisce è una frase del preambolo di Svevo in cui dice: Io vedo il mio pensiero isolato da me.
Questa frase e questa immagine mi hanno colpito e sono giorni che ci giro intorno, ci ho girato intorno anche a scuola tanto che i ragazzi mi hanno chiesto perché mi ero fissato su queste otto parole, e ho pensato allo sforzo di Petrarca di spiegare e di rendere visibile l’andirivieni dei suoi pensieri, e della sua coscienza nel famoso passaggio dell’epistola: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. Questo muoversi interno in Svevo è volutamente guardato da fuori, la coscienza è diventata in luogo in cui ci raccontiamo, anzi in cui “ce la raccontiamo”, non è luogo di pensieri astratti, nel senso di disincarnati, ma il pensiero si incarna e se si incarna può essere visto da fuori, cosa è pensare, cosa è la coscienza? se non l’essere coscienti del fatto che siamo coscienti (io sono cosciente di tenere in mano una bottiglia d’acqua, ma in che modo sono cosciente del fatto che sono cosciente di tenere in mano una bottiglia d’acqua?), se ci addentriamo in questi meandri a ritroso in una sorta di abissale regressione dentro di sé, simile alla prova di Sant’Anselmo, in cui invece di dimostrare l’esistenza di Dio proviamo a dimostrare l’esistenza di io, andiamo così indietro da non arrivare a nulla che non si organizzi attraverso le lettere: io quando penso vedo davanti a me lettere che si organizzano in parole, sento proprio formarsi la parola nella testa, come se dovesse essere pronunciata, se sto parlando, o scritta se sto scrivendo: ecco perché quando penso a una parola che non riesco a ricordare, perché ho un vuoto di memoria, o la mia mente non riesce a comporre la parola mi blocco, perché è come se la mia coscienza, il mio raccontarmi per esistere, il mio essere qui, non fosse, come se sparissi al mondo, come se io non esistessi al mondo: quando la parola che cerco non viene a me, quando le lettere non si formano nella mia bocca o nelle mie mani è come se morissi, come se cessassi di vedermi (i famosi o famigerati limiti del linguaggio di Wittgenstein) non esiste altra cosa che non sia lingua, linguaggio; coscienza, consapevolezza – ogni cosa si fa tramite la parola; quando non eravamo coscienti di noi stessi, quando non c’era la coscienza, c’è stato un tempo che l’uomo non era cosciente, c’era il dio, c’era la voce del dio (l’Iliade è piena di Dei che dettano i comportamenti), e poi c’era il demone di eraclito, il dio che segue Socrate, agire secondo coscienza e agire secondo il volere del dio (c’è un bellissimo libretto di W. Otto Teofania su questi temi); c’è sempre questo movimento esterno o interno a noi che produce la nostra consapevolezza dell’esserci, mi chiedo spesso quando questa voce, questa organizzazione di parole, questo flusso di sintagmi si chiuderà, cosa accadrà a ognuno di noi.