«La vita è una volata di vento. Alla fine rimangono solo le scelte che hai fatto. Io non sono uno della Lega, non lo sarò mai». Mimmo Lucano è vivo, innanzitutto. Questo c’è da dire. Non è rimasto schiacciato sotto il peso della condanna a 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa e peculato. Abita sempre a Riace nella solita stanza, con un letto singolo e una stufetta.
Presto si comprerà due capre e girerà una serie autobiografica per Netflix, ogni giorno coltiva lo stesso sogno di rivalsa: «Se esiste Dio, ritornerò a fare il sindaco di questo paese. Il processo d’appello dovrebbe concludersi nel giro di un anno e mezzo, fra due anni voglio ricandidarmi». Ha cataste di carte processuali sui tavoli e avvocati che lo raggiungono per difenderlo gratuitamente, ha diffidenze e sbalzi d’umore.
Alle sei di sera ordina una camomilla nell’unico bar davanti al municipio: «I nervi. Non dormo tanto bene». La sua utopia era diventata realtà. Ben visibile. Sulla mappa d’Italia. Riace: «Il paese dell’accoglienza». Ristrutturare, riparare, dare cittadinanza. Usare i soldi dei progetti Sprar per piantare semi di vita vera, aprire negozi e laboratori. Ne aveva scritto anche il New York Times, e persino Wim Wenders era arrivato per girare nel borgo chiamato «Villaggio globale».
L’inchiesta giudiziaria, con la sentenza di primo grado del 30 settembre 2021, ha cancellato tutto questo. Il pm aveva chiesto una condanna a 7 anni, il giudice ha raddoppiato la pena. Nelle notti agitate, sono tre i fatti che Mimmo Lucano mette in fila con la rabbia nel cuore. Primo. «Un piccolo commerciante mi ha accusato di concussione il 19 dicembre 2016. Un piccolo commerciante vicino a ambienti mafiosi, una persona violenta, che poi ha sconfessato se stesso e ritirato le accuse.
Ma quella denuncia completamente falsa ha innescato l’inchiesta, assieme all’ispezione della prefettura». Secondo fatto. «Sono stato io stesso a sollecitare un’ispezione urgente e non a campione a Riace. Il documento con la mia firma è del 4 ottobre 2016. E come incomincia la relazione degli ispettori? Con questa frase: “Si ritiene doveroso evidenziare in via preliminare gli aspetti positivi del modello Riace. Il progetto assicura la necessaria accoglienza e assistenza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. È stata constatata una realtà di pacifica convivenza”».
C’è scritto proprio così nella premessa dell’ispezione che poi, alla fine, ha sostenuto l’accusa e portato alla condanna. Segue il terzo fatto che tormenta Mimmo Lucano. «A settembre del 2016 alla prefettura di Reggio Calabria arriva Michele Di Bari. Guarda caso, uno che fa carriera. Matteo Salvini lo nomina capo dipartimento, è un uomo di fiducia del potere.
Che pochi giorni fa si è dovuto dimettere, quando la moglie è stata indagata per caporalato. È il prefetto Di Bari, se ha il coraggio, che dovrebbe dire perché a Riace si è comportato in un certo modo. È lui che deve spiegare perché nella baraccopoli di San Ferdinando, dove era responsabile legale, ha sempre lasciato condizioni disumane. Lui che ha autorizzato la manifestazione di Forza Nuova. È l’ex prefetto Di Bari che potrebbe spiegare molte cose, il suo odio contro di me».
A Riace sono rimasti pochi residenti: 350 dove se ne contavano 1000. Restano i murales del villaggio globale, il «Princess Africa Shop». Restano gli asini che servivano per la raccolta dei rifiuti, appalto per cui il sindaco è stato condannato. «L’affidamento diretto era l’unico modo per sottrarre la gestione dei rifiuti ai soliti noti», dice Lucano. Nelle motivazioni della condanna firmate dal presidente del Tribunale di Locri, Fulvio Accurso, c’è anche l’accusa di aver «strumentalizzato il sistema dell’accoglienza» a beneficio della sua immagine politica.
«Io? Potevo farmi eleggere al Parlamento Europeo, in molti mi hanno offerto la candidatura. Sono nullatenente, a parte una vecchia Giulietta. Vivevo con l’indennità da sindaco da 1050 euro al mese, la mia era una missione. Quattordici anni si danno per omicidio. Io sono incensurato. Stanno infierendo su una persona innocente». «Perché?», gli domandiamo per l’ennesima volta.
«Non riesco a volere male al giudice che mi ha condannato, ci siamo guardati negli occhi. Ma so che Riace era un piccolo paese di persone povere che dimostrava che l’accoglienza era una cosa possibile. Era l’incubo di Salvini. Da Riace arrivava un messaggio pericoloso». Non crede di aver fatto pasticci? «No. Il processo nel merito non c’è stato. Ho fatto delle carte d’identità false, questo sì. Pagandole a mie spese, per non buttare in mezzo alla strada delle persone. L’unica cosa per cui mi sento in colpa è la mia famiglia. Sono andati via: ho sbagliato nei confronti dei mie figli e di mia moglie».
In paese tutti salutano «Mimmo». Mimmo Lucano non ha alcuna intenzione di darsi per vinto. Aprirà presto «Radio Aut Riace» e sta risistemando una dimora storica per trasformarla in museo. Ma adesso è l’ora di dare il mangime alle galline. Bisogna salire alla quercia, l’albero dove i parenti aspettavano i reduci dalla guerra. A metà del sentiero arriva un messaggio di sua figlia con un cuore rosso, e dal telefono dell’ex sindaco di Riace si mette a suonare una canzone di Francesco Guccini: «La casa sul confine della sera, oscura e silenziosa se ne sta».