Di solito ci si preoccupa che i ragazzi studino, io mi preoccuperei prima di tutto del fatto che a studiare siamo noi adulti, impegnandoci a comprendere ciò che sta avvenendo in questi tempi post-coronali.
Il tempo non ci manca perché l’automazione, ossia l’abilitazione di macchine a comportarsi come umani, sta crescendo grazie al web, cioè di questa grande macchina per attrarre umani, regalando loro perline (servizi e informazioni) e drenando tesori: profitti pubblicitari, flussi di preferenze (profilazione), riproduzione meccanica di comportamenti (automazione).
Ci sono rimedi? Certo, ma non sono i due attualmente sul mercato. Il primo è quello regressivo, che si limita a condannare la voracità neoliberista delle piattaforme, inventando ircocervi come il «capitalismo di sorveglianza» di cui tanto si parla non considerando che la sorveglianza è un costo che il capitalismo non ha interesse a sostenere.
E, quel che è più grave, non comprendendo che il rimedio proposto (aumentare i controlli statali sulle piattaforme) sarebbe peggiore del male, creando uno stato quello sì uguale al Panopticon di Bentham, come in Cina, dunque realizzando l’incubo che si voleva scongiurare, perché gli Stati, diversamente dai capitalisti, sono interessati alla sorveglianza. Il secondo è semplicemente virtuale, o meglio chimerico. Come quando si sostiene che basterebbe investire il 2% del Pil globale riducendo le spese militari per risolvere la crisi ambientale. Non è la scelta giusta per ragioni di fatto e di diritto.
Di fatto, non è attuabile, e dunque non è una soluzione: non dubito che tutti noi preferiremmo che in Ucraina non succeda niente, ma dubito che questo auspicio abbia la più remota influenza sul corso del mondo. Di diritto, quando pure per un caso unico nella storia l’umanità si disarmasse, mettendosi alla mercé del bullo di turno, sarebbe una soluzione regressiva, perché inciderebbe sul valore esistente (un valore moralmente problematico, ma pur sempre un valore) invece che crearne del nuovo.
Ora, proprio questo è il punto. L’ambiente, e l’umanità che ci vive, non si salverà mai con una riduzione di risorse, significherebbe condannare a morte milioni di persone, ma con l’introduzione di risorse nuove, dell’immenso capitale di quella fascia preponderante di umanità che prima non aveva nulla, perché non aveva soldi, mentre oggi ha dati, che se bene investiti costituiscono il capitale del XXI secolo.
Il primo atto, qui, è il riconoscimento del valore che gli umani producono sul web, che non esisterebbe se non ci fossero i loro bisogni. Si osservi una circostanza che pare un’inezia: si può automatizzare la produzione, ma non il consumo. Posso inventare una macchina per fare la pizza o per scrivere articoli, ma non per mangiare la pizza o leggere articoli. È proprio su questa circostanza che si fonda la possibilità di immettere nuovo valore nel mondo.
Perché sono i nostri bisogni, immediati come la pizza o mediati come l’articolo, a determinare il valore dell’una e dell’altro, ed è così da sempre. Quello che è nuovo è che oggi consumando cibi, intrattenimento, informazione non solo diamo loro valore, ma ne generiamo di nuovo, l’enorme capitale dei dati prodotti dai nostri comportamenti.
Sembra banale, ma non ci si pensa mai, presi come siamo dal timore che le piattaforme ci spiino, mentre hanno di meglio da fare; o che ci trasformino in automi, opzione fisiologicamente impossibile visto che siamo organismi, oltre che economicamente rovinosa perché in un modo di automi non ci sarebbero bisogni, dunque valori.
Lasciando da parte distopie che purtroppo hanno effetti reali, quelli di convincerci che siamo le vittime sacrificali delle piattaforme, oltre che dello stato biopolitico di altri malanni, elaboriamo una strategia che ci trasformi negli attori di un processo di welfare digitale (Webfare).
La prima mossa è alla portata di ognuno di noi. Come cittadini dell’Unione Europea abbiamo il diritto di richiedere alle piattaforme i nostri dati, che per noi non valgono niente giacché non sono aggregati e sono difficilmente leggibili. Questa mossa è facile in teoria, complicata in pratica, e di per sé inutile, perché è, in grande, come conservare tutti i biglietti dei treni, gli scontrini dei negozi, le cartoline dal mare: cosa ce ne facciamo, a parte riandare ai bei tempi che furono e che interessano solo noi, quando va bene? Oltre che inutile, l’operazione appare sciocca, perché in quell’enorme pagliaio di like, di comportamenti, di bioritmi ci vorrebbe una pazienza inumana, quella di un computer, per trovare non dico un valore, ma un senso qualsiasi. È qui che si tratta di compiere la seconda mossa, che richiede l’intervento di corpi intermedi vecchi e nuovi. Se quei dati non valgono per noi ma per le piattaforme è perché queste, aggregandoli con milioni di altri dati, tendono a renderli significativi e dunque capitalizzabili appunto in quanto fonte di proventi pubblicitari, profilazione e automazione.
Se le cose stanno in questi termini, si tratta di creare delle agenzie di intermediazione, o rimodellarne di esistenti, capaci di aggregare i dati e di capitalizzarli per finalità socialmente utili. Concretamente: una azienda sanitaria è autorizzata dai suoi clienti a mettere sul mercato i dati sanitari aggregati, cioè anonimizzati, oltre che i dati social (immagino che la correlazione sarebbe molto significativa), e i proventi coprono la spesa sanitaria.
Una banca è autorizzata dai suoi correntisti a mettere sul mercato, sempre in forma anonimizzata, tanto i dati finanziari quanto i dati social, e i proventi vanno a sostegno del territorio e delle persone o imprese in difficoltà.
E così via per musei (aggregare i 4 milioni di dati dei visitatori del Museo Egizio con i loro archivi social ci direbbe molte cose sul mondo di oggi), scuole, università, biblioteche. Con questo processo si produrrebbe nuovo valore, che prima era silente o inutilizzato, senza intaccare il valore già esistente, quello delle piattaforme.
Cosa non meno importante, si darebbe vita a un mercato dei dati che in questo momento manca. Quanto valgono le informazioni che permettono di far volare gli aerei a pieno carico grazie ai dati sui comportamenti dei passeggeri? Ecco una domanda a cui non si potrà mai rispondere se l’acquisto dei dati è il frutto di una trattativa privata tra una piattaforma e una compagnia.
Se esistesse un mercato (e non potrà non esistere con l’ingresso di investitori di dati che siano diversi dalle piattaforme) ci sarebbe una domanda e un’offerta e, su quella base, si determinerebbe il valore economico che potrà essere investito nell’incremento del valore culturale e umano.
Il punto è dirimente. Solo una società capace di creare nuovo valore invece di litigarsi le briciole del valore esistente può trovare le risorse educative e culturali, cioè anche le disponibilità finanziarie, per generare nuovi valori invece che piangere la morte dei vecchi. Le piattaforme hanno insegnato all’umanità come dar valore commerciale ai suoi comportamenti; tocca ora all’umanità insegnare alle piattaforme come dare valore culturale e morale a questo immenso capitale indicando la via per la transizione, lunga, ma in ogni momento reale, dall’homo faber all’homo sapiens. Ecco perché il futuro dell’umanità, un avvenire che durerà a lungo, sarà caratterizzato da un peso crescente dell’educazione, proprio come gli ultimi 10mila anni sono stati assorbiti dalla produzione. Le risorse ci sono, solo si tratta di riconoscerle e di investirle con una cooperazione tra valore economico, valore culturale e valore morale capace di creare un circolo virtuoso. Creando così una scienza nuova in cui gli spiriti animali dell’umanità, presenti da che umano e umano ma oggi trasformabili in dati e in valore, costituiscano una risorsa che ci accompagni nel passaggio infinito, ma doveroso e definitorio della natura umana, dalla scimmia all’uomo, dall’odiatore al formatore, e magari anche dal pensatore negativo al pensatore propositivo.