
Ragionando sulla trasformazione del soggetto produttivo: dalla classe operaia alla moltitudine dei lavoratori, e della natura del lavoro produttivo: dal fabbricato al linguistico, dal materiale all’immateriale e infine del suo spazio: dalla fabbrica alla società intera, il grande movimento degli anni ’70 si aprì alla lotta rivoluzionaria.
Nel 1999, Luc Boltanski e Ève Chiapello pubblicano: “Il nuovo spirito del capitalismo”. In quel bel libro insistono su una nuova critica del “modo di produrre” sulla rottura della centralità della fabbrica e della catena di montaggio, e di contro sull’apparire della precarietà del rapporto salariale e soprattutto sulla soggettivazione del lavoro produttivo. Una soggettivazione resa evidente ed impetuosa dal manifestarsi del carattere immateriale, cognitivo delle merci/servizi che erano prodotti. Una soggettivazione che si dava nelle metropoli, dove negli spazi digitali si presentava l’opportunità di sviluppare iniziative indipendenti – che nella lettura di Boltanski-Chiapello definivano il mondo del lavoro (cioè il mercato) come spazio immateriale, diffuso, polifonico e, appunto, fortemente soggettivato. Nel rinnovare l’approccio all’analisi del lavoro, Boltanski-Chiapello propongono un processo critico che chiamano “artistico” ispirato al ’68. Questo nuovo modo di lavorare che la critica “artistica” indicava, si trasformava il modo di produrre attraverso un libero assemblaggio sociale, diverso dal modello fordista. L’arte dell’assemblea costituiva dunque il leitmotiv di una nuova ontologia del lavoro, su una nuova scena dominata dalla critica artistica e qualificata da una relativa liberazione del lavoro ai fini di costruire una libera società futura.
Ci indicavano in tal modo, Boltanski-Chiapello, un mondo utopico? Non credo si debba rispondere solo positivamente a questa domanda, era piuttosto semplicemente (alla maniera della grande sociologia del XIX secolo) un modo di presentarci una variante metodica del “tipo ideale” della “liberazione dal lavoro” quale era stata immaginata dal ’68. Un’utopia, ma come sempre dentro un briciolo di verità. Un tipo ideale e quindi un’astrazione di qualcosa di vero. Che cosa allora era la verità preannunciata da quell’assemblaggio artistico? Che cosa sostituiva nel nuovo modo di lavorare il comportamento artistico a quello disciplinato precedentemente del lavoratore industriale? La novità stava nel fatto che la moltitudine di attori di quel nuovo fare artistico non si ammucchiava più nella massa ma si presentava, fosse pure in maniera confusa, come singolarità che si associavano. La moltitudine, impegnata nelle nuove catene della produzione, non faceva massa ma associazione, associazione di prestazioni singolari di lavoro e di esperienze di vita che si presentavano come relazioni e servizi immateriali, attività intellettuali, soggettivazioni produttive.
Quanto era determinante questo muoversi singolare della/nella moltitudine, nel definire un nuovo secolo! Una nuova epoca si era aperta… Eppure, Boltanski-Chiapello non ci avevano avvertito che dentro queste reti associative e sopra di esse era venuto formandosi un potere capace di adeguare e rendere sempre più forte e violenta l’opera di controllo di quei movimenti e della loro vita. Boltanski-Chiapello ci avevano offerto il tipo ideale della rete associato del lavoro soggettivato, assemblato, ma non avevano abbastanza riflettuto sull’altro aspetto della grande trasformazione del modo di produrre che pure avevano così ingegnosamente analizzato: su come la vita degli uomini fosse stata messa in gioco da questa trasformazione. Mancava ancora Foucault, potremmo aggiungere oggi.
Foucault infatti ci insegna come proprio in quella situazione apparisse un potere che, adeguandosi al nuovo movimento della produzione, strisciava sulla vita e mano a mano l’avvolgeva, così, come fosse un gigantesco serpente, un potere che ormai arrivava ad intingere il suo comando nella vita, poteva controllarla, quando fosse confrontato ad una moltitudine, ricca sì di nuove energie vitali, artistiche, espressive, produttive, ma ancora priva di una capacità adeguata di resistenza ed autonomia. Il quadro era asimmetrico, profondamente inclinato sul lato del potere. La tragedia del postmoderno si definiva attorno a questa determinazione, al risalto che di nuovo, come già avvenuto nel moderno, il dominio prendeva sull’insieme degli attori della crescita economica e civile della società: nel moderno il dominio si dava sulla massa dei lavoratori, nel postmoderno esso si esercita sulla moltitudine di vite produttive e riproduttive della società. Nel vecchio sistema era sfruttamento, nel presente è estrazione di valore.
Se ora, tenuto presente quel panorama del postmoderno che abbiamo tratteggiato e dalle tipologie immaginate scendiamo nel reale e guardiamo alla storia dei primi due decenni del nostro nuovo secolo, possiamo osservare quanto, a partire da quel proposito sessantottesco (e per l’Italia dai ’70) sia venuta meno declinando l’idea di un affermarsi “artistico” del lavoro e della vita, quanto invece si siano potentemente imposte nuove forme di disciplina e di controllo. Se la sociologia di Boltanski-Chiapello ci mostrava quanto fosse mutato il tessuto della produzione, e se le analisi dei processi riproduttivi andavano a dispiegarsi sul nuovo tessuto di più vaste reti di socializzazione, non c’era più libertà in questa trasformazione, non c’era un “ben vivere” più felice di prima – al contrario, c’erano meno libertà e ben vivere, e si era esteso ed intensificato il dominio sulla moltitudine confusa che quella trasformazione aveva prodotto.
Ma la moltitudine, questo grande insieme biopolitico di singolarità, non è solo rotta o dissipata e confusa dal rapporto di forza che il potere le impone. Le singolarità sono soggettivate, il desiderio e la paura stanno dentro i loro rapporti e ne contrassegnano le volontà ed il risultato delle azioni. Quando il biopotere si muove vincente, la paura allora invade i rapporti delle potenze singolari nella moltitudine; gli aspetti malati prevalgono, la separazione e il pessimismo egemonizzano l’opinione e dirigono i comportamenti. Di nuovo, quando vince la paura, non c’è più libertà, non c’è più resistenza. Talora vige una passione ignobile che chiamano resilienza, una stanca consapevolezza di impotenza. Quale immagine di questa trasformazione più nefasta di quella offerta dalla pandemia di Covid, quando la potenza produttiva della moltitudine viene ingabbiata dentro macchine disciplinari e gabbie di controllo che tolgono ogni forza creativa ed ogni desiderio associativo alle singolarità lì imprigionate? E ancora: quale più terribile aspettativa o incubo crescente, quando riconosciamo nell’immaginario della pandemia il sintomo di un’irrisolvibile crisi climatica che alla prima sta dietro? Ed il preannuncio di intrecci con perduranti e approfondite crisi sociali di razza e di genere? Quell’assemblaggio uccide. L’orizzonte è fosco.
Quando ci muoviamo su questo percorso e ci affanniamo dentro le difficoltà che troviamo, avvertiamo tuttavia – se non ne siamo travolti e riusciamo a tenere i piedi per terra – il cumulo di resistenza che lo svolgersi di quella storia determina… “Udiamo il rumore della battaglia”, ci ricorda Foucault. E questo rumore e l’intensità della resistenza degli uomini contro quel procedere di un assemblaggio che domina e uccide, lo sentiamo tanto più forte quanto più il processo avanza e la sua dimensione biopolitica si accentua. Non apparirà paradossale, dunque, il fatto che soprattutto nella pandemia, quando il pericolo è divenuto più grande, ivi appaia con maggiore intensità la resistenza. Sono medici che tentano di salvare vite compromesse dall’assemblaggio produttivo; sono scienziati che comprendono il pericolo e ci indicano i modi di salvare le vite; sono gruppi di persone che si associano per aiutare a sopravvivere i poveri e le persone isolate dalla malattia o dalla vecchiaia; è insomma una rivolta nel biopolitico contro il Biopotere che ci assembla per ucciderci. Questa resistenza diventa evidente e mostra la sua forza sul punto più alto della tendenza del biopotere all’assoggettamento: è là dove la moltitudine ci ha condotto ed è stata condotta. Potete stupire per la confusione che molto spesso si rivela nei comportamenti della moltitudine in questa fase di fortissimo conflitto fra le forze che costringono l’assemblaggio delle singolarità sotto la governance produttiva e le potenze che, contro quel dominio, costruiscono cooperazione ed agiscono per il bene comune? Cosa è rimasto a questo punto della “critica artistica” di Boltanski-Chiapello? Resta ben poco – ma quel poco va comunque pur faticosamente recuperato dentro il caos nel quale il Biopotere sa spingere la moltitudine. Siamo nel caos ma è appunto nel caos che la moltitudine può dare battaglia, per produrre comune e suddividerlo fra tutti e cercare ben vivere e felicità. Ed è nella battaglia, per esempio, per un vaccino comune, strappato alla proprietà privata ed alla predisposizione gerarchica dei governi. È in questa battaglia che il comune è costruito.
Costruendo il comune noi strappiamo alla paura il tempo a venire. Perché è solo quando il futuro non fa più paura, che il presente assume valore e la storia che si apre davanti a noi assume significato. È contro la paura, contro la resilienza, che giuste pratiche del rapporto fra uomo e natura possono essere instaurate. Dentro quel comune che ci avvolge. Contro il Biopotere ci muoviamo dunque per costruire una biopolitica della libertà. Anch’essa “artistica” – come la volevano Boltanski-Chiapello – ma chiarendo che questo carattere artistico che la libertà costruisce per l’attività umana è possibile solo quando il comune è l’operatore della storia e la moltitudine è la sua figura.