CI proviamo in tutti i modi a essere ottimisti. Ci proviamo in tutti i modi ad apprezzare la compattezza dell’occidente, ad ammirare l’unità dell’Europa, a rallegrarci per la forza delle sanzioni, ad apprezzare la svolta sulla difesa europea, a godere per la conversione dei populisti, a esultare per la vittoria del sovranismo europeista.
E ci proviamo in tutti i modi a ripeterci che sì, forse Vladimir Putin avrà la meglio dal punto di vista militare, ma certamente sul medio periodo e sul lungo periodo non potrà mai vincere, perché la democrazia è più forte della dittatura, perché la globalizzazione è più forte delle autocrazie, perché la società aperta quando è unita, compatta, decisa, può vincere le sue guerre, anche senza avere bisogno di mettere gli stivali sul terreno. Ci proviamo in tutti i modi a considerare i nostri strumenti di deterrenza, qualcosa di diverso da un’ammissione di impotenza. Ma poi capita che l’occhio ti cada su un articolo come quello pubblicato ieri mattina dall’Atlantic – “Per l’occidente, il peggio deve ancora venire” – e capita che la tua attenzione venga rapita da una serie di fatti che,
messi uno accanto all’altro, fanno paura. Sarebbe bello poter dire che il bombardamento delle città ucraine da parte dell’esercito russo segna l’ultimo atto di un mondo autoritario lentamente soffocato dal potere della democrazia liberale. Ma il quadro più ampio, scrive l’Atlantic, è più deprimente, sia a breve termine per l’Ucraina che a lungo termine per l’ordine occidentale.
Punto numero uno: nel migliore degli scenari possibili, oggi la non vittoria di Putin coinciderebbe con uno sconfinamento militare della Russia limitato, per così dire, non a tutta ma “solo”a un pezzo dell’Ucraina. Punto numero due: la guerra che l’occidente vuole combattere sul piano economico è una guerra nella quale mentre la Nato offre armi all’Ucraina i paesi europei offrono soldi alla Russia attraverso il petrolio e il gas per finanziare
indirettamente le spese militari di Putin. Punto numero tre: la Russia che non vogliamo far sconfinare in Europa sta già esercitando il suo potere non solo in Ucraina ma in tutta l’Asia centrale, in medio oriente e in diverse parti dell’Africa, e l’Assad che l’occidente doveva cacciare dalla Siria è ancora lì a difendersi, anche con l’aiuto di Putin.
Punto numero quattro: le dittature più o meno soft che l’occidente dice di voler contrastare, dalla Cina alla Turchia passando per l’Iran e l’Arabia Saudita, potrebbero “trasformare il mutevole equilibrio del potere globale in un’opportunità per esercitare la propria egemonia”, con tanti saluti a Taiwan e ai genocidi della Cina contro il suo stesso popolo a lungo ignorati dall’occidente. Punto numero cinque: la primavera araba che avrebbe dovuto portare una ventata di democrazia tra il nord Africa e il medio oriente si è in gran parte esaurita con
l’affermazione, salvo pochi casi, di nuove brutali dittature. Punto numero sei: in Africa e in Asia, l’influenza cinese e russa sta crescendo, non solo in Afghanistan, negli stessi mesi in cui l’influenza occidentale
si sta riducendo.
E dunque, sì, può essere confortante dire che i problemi di Putin in Ucraina dimostrano inequivocabilmente che il vecchio ordine liberale ha tutti gli anticorpi per proteggersi dal virus degli autocrati illiberali e che il costo che la Russia di Putin, ormai sull’orlo del default, pagherà per la sua campagna in Ucraina costringerà il dittatore russo a vivere a lungo con un cappio intorno al collo. Ma mentre siamo lì a rallegrarci per la nostra ritrovata forza – la Casa Bianca ieri ha detto che l’escalation di Putin è senza via d’uscita –, siamo anche lì a chiederci cosa saremmo disposti a fare se un giorno, dopo Kyiv, Putin dovesse minacciare l’annientamento nucleare di una città dell’Europa. E la domanda vera sulla quale prima o poi toccherà riflettere non
riguarda una valutazione su quanto i buoni, cioè noi, siano davvero buoni, ma quanto i cattivi, cioè gli altri, abbiano davvero paura di ciò che possono fare i buoni, cioè noi. AAA: cercansi disperatamente risposte ottimistiche.
Annalisa Capaldo