Raccontare la Lazio del ’74 è un’impresa epica per più ragioni: ne è stato scritto a bizzeffe, la documentazione è sconfinata e il suo tempo, però, ci appare lontano anni luce. Il romanzo di Angelo Carotenuto non è soltanto la storia di quella Lazio, tragica e memorabile, ma degli anni e del contesto storico nei quali quella storia ha avuto luogo.
« “Tu non lo senti all’improvviso tutto questo vuoto intorno?”. Lo scudetto sta già slittando nel gelo della storia. Vuota è pure piazza della Loggia a Brescia, ferita a morte dall’attentato. Re Cecconi aspira una boccata con soddisfazione. Appizza l’occhi e a modo suo sorride: “Niente, Martini, vedrai che non succede niente. Credo che avremo vent’anni per sempre”. » (Le canaglie, pp. 230-231)
Personalmente, ho trovato questo uno dei momenti più intensi del libro – che andrebbe letto come la paja fumata da Re Cecconi, d’un fiato. Leggendo queste righe, vengono in mente anche le parole di Bob Lovati rivolte proprio a Re Cecconi, il Biondo: « “Roma è un covo di apatia e di solitudine, Roma è quella specie di angoscia che senti dentro la bafagna, l’aria fiacca delle tre di un pomeriggio di agosto, oltre le persiane abbassate, dopo che hai fatto l’amore”. » (op. cit., p. 136)
Per tutta la durata del libro, si prova come un sentimento di malinconia tipico del vivere a Roma. È il sentimento di chi vede l’immensità della storia naufragare sotto i colpi del tempo. Il tempo, la storia, la malinconia: che ruolo giocano nel tuo libro? Che ruolo giocano, soprattutto, nel calcio?
Il tempo è un elemento centrale delle Canaglie. Non volevo fare un’operazione nostalgica ma di testimonianza. Volevo provare a mostrare che cosa ci siamo persi strada facendo mentre ne stavamo conquistando certamente altre. Tutti perdono qualcosa nel romanzo, sia i personaggi reali sia quelli immaginari. In questo senso la malinconia dialoga con il tempo che passa e che si porta via certi riti, certe abitudini. Se ci pensi, nel calcio sono elementi che hanno uno sviluppo paradossale. Sovvertono il loro senso quotidiano. Almeno i primi due di sicuro.
Il calcio dispone per esempio del tempo di recupero, che fuori dal prato e dal gioco non ci viene concesso. Una storia, al cinema o in un libro, ha una sua vita autonoma dall’epilogo: ci sono film che rivediamo, romanzi che rileggiamo, senza preoccuparci del fatto di sapere come vanno a finire. Ci interessa – come si dice – il viaggio e non la meta. Invece una storia nel calcio, se la intendi come trama, viene annullata dal risultato.
A quanti interessa ormai il viaggio? Quante volte capita che un gol al 90’ ti spinga a reinterpretare quello che è successo nei precedenti 89 minuti secondo altre lenti? Quanto alla malinconia, se aveva ragione Victor Hugo che la chiamava la gioia di essere tristi, credo che si affacci nel calcio ogni volta che un attaccante fa gol contro una sua ex squadra e non esulta. Il suo picco irraggiungibile credo sia stato toccato la sera dell’addio di Totti al calcio. Era difficile accettare l’idea che se ne stava andando ed era bellissimo che se ne andasse in quella maniera là.
Un altro elemento che mi sembra cruciale nel libro è il ricorso costante all’alleanza di sacro e profano, che nel calcio è un connubio già cantato da Pasolini, Camus, Ratzinger. Di questo connubio, nel libro, l’attore fondamentale è Padre Lisandrini, il Sacerdote di quella Lazio. Ma anche Maestrelli, il secondo padre di questi ragazzi scalmanati. Secondo te il calcio è ancora oggi una religione di popolo?
Maestrelli ha qualcosa che ha a che fare con la santità. Attraversa quella squadra così spaccata fino alla rissa quotidiana in allenamento, quella squadra che si cambia in due spogliatoi diversi, come un disertore di conflitti. Svolge un ruolo silenzioso, faticoso e costante di gestore delle circostanze, ricompone fratture, agisce da padre putativo per più di uno dei suoi calciatori, non tutti in sintonia tra loro. Non posso non pensare che ci sia in questa impresa immane una componente di martirio, ora lo dico così, in termini religiosi perché in questi termini ne stiamo parlando, ma intendo dire che porterà nel proprio corpo i veleni di questa esperienza.
“Buonanotte Feli’. Basta leggere. Spengo la luce” [dice Sergio Petrelli rivolgendosi a Felice Pulici che sta sfogliando le Confessioni]. Così dal materasso mira alla lampadina, al primo colpo la frantuma, come se fosse stato dentro a un western. Pam. Ancora. » (op. cit., p. 127)
L’episodio di Petrelli, celebre, è solo uno dei tanti che si raccontano sulla Lazio del ’74: una specie di manicomio sportivo, dipinto perfettamente dalla tua penna. Ora, leggendo le storie di questa squadra, il lettore prova una sorta di segreto fascino. Come il protagonista, Marcello, che all’inizio della storia è lontano da Giorgio Chinaglia, distante da quel mondo di burberi, viziati e violenti calciatori egocentrici. Piano piano, però, ne rimane come affascinato. Ad un certo punto del libro, poi, Marcello svela al lettore di aver finalmente compreso cosa significhi “simpatizzare” per una squadra di calcio. Si può affermare che, in un certo senso, la storia di Marcello è una metafora della storia di tutti noi, appassionati del gioco più bello del mondo?
La tv e la rete hanno mutato prima e stravolto poi tempi di lavoro, scenari, dinamiche. La carta – che non so fino a quando conserverà il ruolo di madre nobile dell’informazione – deve reinventarsi una grammatica e non sempre ce la fa. La crisi economica impedisce ai quotidiani di mandare in giro come un tempo i suoi giornalisti o i più giovani. Meno giri, meno vedi. Meno incontri, meno capisci. Meno conosci, meno sai e meno riferisci.Spesso colleghiamo i capricci dei calciatori moderni al ruolo di primo piano (di monopolio, si direbbe) che hanno acquisito nel tempo figure all’epoca semi-sconosciute: i procuratori. Credi che uno dei segreti di quella Lazio fosse proprio l’unione d’intenti sintetizzata nella figura di Tommaso Maestrelli? O è una lettura troppo semplicistica dei fatti?Io credo che quella squadra abbia dimostrato che l’unità dello spogliatoio è un falso mito oppure un mito fino a un certo punto. Si può vincere anche – non dico odiandosi – senza essere amici, restandosi francamente antipatici per tutta la settimana ma dando grande valore allo scopo, alla missione, all’obiettivo, al traguardo. Quella Lazio, perciò, mi pare un gruppo di super professionisti rispetto alla sua epoca, in un’età nella quale il professionismo non era così spinto come adesso.
Parliamo di ragazzi che arrivavano spesso in Serie A per caso. Non frequentavano una scuola calcio. Non si erano formati per diventare dei calciatori. A volte avevano già un lavoro, giocavano nella squadra del paese e il prete li aveva segnalati a qualcuno. Arrivava l’osservatore e loro se ne andavano da qualche parte a cercare l’avventura, partivano come dei Don Chisciotte, ma si facevano conservare il lavoro, casomai le cose fossero andate male. Avevano genitori che volevano studiassero, che li contrastavano nel loro sogno di pedate, non speravano di farne dei milionari per aggiustare il conto in banca.
« Oggi vedo ragazzini che sanno tutto dei terzini nigeriani. Ti raccontano a quanti chilometri orari il mediano dell’Indonesia ha tirato da fuori area, da quanti metri, e quanti palloni tocca ogni minuto l’attaccante che gioca nella squadra settima in classifica del campionato colombiano. Possono guardà i gol di ogni partita giocata in ogni prato del pianeta Terra. Ma non possono passà il cancello del campo dove s’allena la squadra loro. Più aumenta la quantità di calcio che vedono, più si riduce il margine di libertà con cui lo guardano. Si sta cercando un nuovo pubblico, perché noi cinquantenni-sessantenni lo riconosciamo meno come nostro e i teenager non lo riconoscono ancora come naturale a loro, abituati a fare più cose allo stesso tempo. I ragazzini non guardano più una partita intera, ma dei frammenti. Puoi tenere un ragazzino davanti a una partita di calcio ma non puoi costringerlo a guardare solo quella e non fare altro contemporaneamente. Chattare, commentare, pubblicare un meme.« Cosa ricordano i bambini della prima volta in cui scoprono uno stadio? L’ascesa lenta, le scale fatte col fiato grosso, l’attesa e la scoperta, il batticuore in petto. Tutto quel verde che si apre all’improvviso una volta in cima, il panorama, l’Olimpico illuminato, il sole, la sensazione d’essere arrivato dentro un’altra vita. »
a cura di Marco Mattiello