Dice, il Trap, che se non fosse diventato calciatore avrebbe fatto il tipografo. E in effetti era già sulla strada: impiegato alla Riboldi, una ditta di cartotecnica, a quattordici anni. Appena finite le medie, perché gli anni erano duri e il lavoro un valore assoluto. Lo ricorda spesso, Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino: «Chi non è nato povero non può capire. Si godeva di niente, in quegli anni di ricostruzione. Il boom era dietro l’angolo, ma chi se ne accorgeva in quel piccolo mondo tra periferia e paese?».
C’è il lavoro, ma c’è appunto anche il calcio. L’oratorio. Quello di San Martino, Campetto in terra battuta, niente di speciale ma con i fari si può giocare anche di sera. Soprattutto di sera, se uno lavora mattina e pomeriggio. E Giovannino gioca, eccome se gioca. Anche due o tre ore in fila, dopo una cena preparata da mamma Romilde, buttata giù in fretta e furia. Gioca senza la foga di correre avanti, tipica dei ragazzini. Lui è già quello che sarà per sempre: controlla, dirige, copre. Così all’oratorio, così al Frassati, la prima squadra ufficiale, così nelle file del Cusano. Dove lo nota, durante una sfida ai giovani del Milan, Mario Malatesta, tecnico dei rossoneri, uno di quelli che hanno il sesto senso per scoprire talenti. E il 1956. Giovannino, a diciassette anni, si ritrova sul campo di Rogoredo per il provino che gli cambierà la vita. Abile arruolato, il futuro si chiama Milan. Subito un torneo a Strasburgo, primo viaggio all’estero di Giovanni che vive immerso in un sogno. Poi Malatesta porta i suoi gioielli, la «piccola Honved» come l’hanno già ribattezzata, al torneo di Viareggio. Per vincere, nel ’59 e nel ’60.
Nel gruppo, con Giovannino da Cusano, c’è Sandro Salvadore. Ci sono Noletti e Trebbi, talenti che non avranno la stessa fortuna. Brucia le tappe, il ragazzo: a diciannove anni debutta in Coppa Italia, Milan-Como 4-1, è il 29 giugno del ’59 e nel tabellino della Gazzetta c’è scritto “Trappattoni “, doppia “p” per stare sul sicuro. Quel tabellino lo legge anche papà Francesco, a cui Giovanni non ha detto nulla dell’esordio: «Non hai voluto che venissi a vederti, non avrò mai la fortuna di vederti» borbotta al figlio il giorno dopo.
Frasi a cui non si dà peso, sul momento, ma che ti tornano alla mente poi. Il 3 luglio un infarto stronca Francesco Trapattoni. Giovanni è sconvolto, ha diciannove anni e non ha la certezza di poter vivere di calcio, mille domande in testa e nemmeno una risposta. Vuole smettere. Gipo Viani convince il fratello Antonio, insieme gli fanno capire che è meglio andare avanti. Il Milan gli aumenta lo stipendio (da 35mila a 60mila al mese). Gipo Viani tiene legato Giovanni Trapattoni al mondo del calcio. Se questa storia può continuare, è anche merito suo.
Luglio 1960, esterno sera. Ce ne sono tante, di cantine come questa, a Grottaferrata. Ti siedi a un tavolo lungo di legno massiccio, bevi a piccoli sorsi vino duro e puro “de li castelli “. Piccoli sorsi, e soprattutto pochi. Perché mica sei lì per caso, c’è un’Olimpiade da giocare e tu sei un atleta. Tu, Giovanni Trapattoni, uno di quelli della Nazionale di calcio. Esordio in Serie A già alle spalle: ti ha buttato nella mischia “Cina” Bonizzoni il 24 gennaio 1960, a Ferrara: Spal-Milan 0-3. Oddio, a dirla tutta l’Olimpiade ti colpisce di striscio, su queste colline del ritiro azzurro. Però è bello, è quasi una vacanza e intorno c’è il meglio del calcio giovane d’Italia. Rivera, Bulgarelli, Burgnich, Salvadore, Ferrini, Favalli, Magistrelli eccetera eccetera.
E c’è quella cantina, in Corso Traiano. E quella ragazza, Paola, nipote del titolare. «È bellissima» dici in continuazione a Giacomino Bulgarelli. E lui sorride: «D’accordo, è bellissima, ma lo devi dire a lei, mica a me…». Giovanni Trapattoni, innamorato e timido. E allora ci pensa l’amico Luciano Magistrelli, compagno di stanza e di allegrìa, a fer marla per strada: «Senti, tu a quel biondino ci devi parlare, altri menti non mi fa più dormire di notte». Paola ti parla, tu le parli, e da lì in avanti la cantina di Corso Traiano è un appuntamento fisso. Il vino? E chi ci pensa più. L’Olimpiade scorre intorno, importante e sfortunata: l’incontro con Rocco, altro maestro di vita; la compattezza di un gruppo che guarda con ottimismo al futuro; la rabbia per quella semifinale pareggiata con la Jugoslavia, e poi persa al sorteggio, una moneta beffarda che cade dalla parte sbagliata mentre tu e gli altri ragazzi, giù negli spogliatoi, atten dete a pugni chiusi una risposta. E poi tutto il resto, un film che scorre in lontananza. Berruti, Wilma Rudolph, Bikila, Benve nuti e Clay. E Paola, certo. La donna della tua vita, la madre dei tuoi figli. La signora Trapattoni, benedetta Olimpiade.
Il Re e la Pantera
Come cambia la vita. E basta poco a pensarci, magari una decina di giorni. Certo, dopo le Olimpiadi hai ritrovato Rocco al Milan e hai già vinto uno scudetto, da titolare, nella stagione ’61-62. Accanto a Rivera, Altafini, Sani. Hai già un Mondiale alle spalle, ma in Cile nel 1962 quel dannato infortunio ti ha costretto a fare il turista. Insomma, manca un niente. La consacrazione. Dieci giorni per la gloria: 12 maggio 1963, San Siro, amichevole Italia-Brasile. Se vuoi toccare il cie lo con un dito, Giovannino da Cusano, eccoti accontentato. Quello è Sua Maestà, Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé. Tocca a te, Giovanni, fare la sentinella. Il tuo mestiere, e lo fai bene.
Anche se la leggenda ha i suoi retroscena: il campione è immenso ma è anche giù di tono, ha i muscoli infiammati e in campo resta soltanto ventisei minuti, per lasciare il posto allo sconosciuto Quarentinha. Vi rivedrete, questo è sicuro. Dieci giorni per la gloria: 22 maggio 1963, Wembley, finale di Coppa dei Campioni tra Milan e Benfica. Partono in quarta i portoghesi, c’è la solita incontenibile “pantera nera “. Ma sì, il grande Eusebio, tenuto a fatica da Benitez e in gol dopo appena diciotto minuti. Serve un mastino, sul fuori classe. Rocco decide che serve la grinta del Trap. Tocca a te , Giovanni Trapattoni. Cambia la marcatura, cambia la partita. Nel secondo tempo Altafini fa uno-due, Rivera dirige, Ghezzi fa i miracoli tra i pali. E tu fai semplicemente il tuo lavoro. Domi la pantera, entri nella storia quasi senza accor gertene: «Solo quando Maldini sollevò la coppa capimmo quello che avevamo fatto». Per la prima volta una squa dra italiana è sul tetto d’Europa, ecco tutto. Il Milan di Rivera, di Altafini, di Maldini. Il Milan di Giovanni Trapattoni, e non è un sogno.
Ci sono, in questa storia, undici stagioni rossonere. Ci sono momenti di buio, tra il 1965 e il 1966. Giovanni Trapattoni chiude il suo sogno azzurro nell’aprile del 1965, quando si strappa al raduno di Coverciano prima della sfida con la Polonia. Ha alle spalle diciassette presenze, non ne collezionerà più. Con Liedholm in panchina, perde anche il posto da titolare nel Milan. Va in crisi, si riprende lentamente. Nel 1968 torna Rocco sulla panchina rossonera, e riaccende la luce. Girano voci di cessione, il paròn tuona: «Zò le man da Giuanìn». Per lui, il ragazzo è quasi un figlio. E comunque un titolare inamovibile.
Chiude quattro anni dopo, il calciatore Trapattoni. Con due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, due Coppe dei Campioni, una Intercontinentale da lustrare, da raccontare ai figli. Chiude una porta e apre un cancello. Fa l’apprendista allenatore al Milan, va in panchina nella maledetta domenica di Verona, il 20 maggio del 1973, perché il destino gioca scherzi strani: Rocco squalificato, Maldini ammalato, tocca a lui vivere la grande delusione della “stella mancata”, di quel 5-3 che strappa dalle maglie rossonere uno scudetto che sembrava già cucito. Gli tocca, poi, un altro finale di stagione tribolato: 1973-74, Maldini lascia, il presidente Buticchi affida a lui un gruppo sfilacciato a sei partite dalla fine del campionato. Lui ricuce soprattutto in Europa: fa un’impresa col Borussia e porta la squadra in finale di Coppa delle Coppe, persa in partenza contro il Magdeburgo.
Avanti un passo: 1974-75, Giagnoni in panca entra in rotta di collisione con Rivera, Trap fa il vice e in prima fila assiste allo scontro. Rivera va oltre: rileva con l’aiuto di Duina il Milan da Buticchi e nella stagione successiva richiama Rocco come consigliere e promuove Trapattoni allenatore. Ma c’è una dannata confusione: non è semplice allenare un giocatore che è anche il padrone del vapore, farlo convivere col gruppo. Trap mostra carattere («Se c’era da togliere Gianni dal campo lo facevo, eccome…») e intanto si sente pronto a cambiare. Decide di chiudere, al Milan pensano a Marchioro e non insistono più di tanto. Si fanno avanti Atalanta e Pescara, Giovanni è lusingato ma qualcuno lo ferma. È Piercesare Baretti, vicedirettore di Tuttosport: «Aspetta a dire sì, la Juve sta pensando a te». La Juve? Sì, dopo il sorpasso subito dal Torino campione, Parola ha il futuro segnato, tornerà alle giovanili. Agnelli e Boniperti hanno scelto. Il futuro è Trapattoni.
Ultima fermata, Lecce. 27 aprile 1986, dalla panchina Giovanni Trapattoni guarda la sua Juventus, che domani non sarà più sua. La guarda vincere, 3-2, su quel povero Lecce condannato alla caduta, che le ha fatto da poco un regalo enorme battendo la Roma all’Olimpico, arrestandone la rincorsa. È di nuovo scudetto, il sesto in dieci stagioni. È storia, è un ciclo unico e incancellabile. Giovanni Trapattoni guarda e sa che è l’ultima occhiata. Chiude da vincitore, su quella panchina dello stadio di Lecce. I ricordi, dolci da respirare, affollano la mente e vorrebbero uscire liberi nel cielo di aprile. Sono mille, i ricordi. Raccogliamo al volo quelli che passano più vicini al cuore: la prima volta, l’irlandese tranquillo, re Michel, il dramma dell’Heysel, l’ultima sfida. Fotogrammi della memoria.
La prima volta. Stagione 1976-77, il Trap apre il nuovo corso senza rivoluzioni. Porta due guerrieri, Boninsegna e Benetti. Il talento di Cabrini gli esplode tra le mani. Il duello col Torino, stavolta, è vinto. Allo sprint, 51 punti contro 50, una sfida a ritmi indiavolati. Scudetto numero diciassette, alla faccia della cabala, e in più c’è l’Europa che chiama. Coppa Uefa, la finale contro l’Atletico Bilbao finisce in gloria, è il primo successo internazionale bianconero. Che inizio, l’inizio del Trap.
L’irlandese tranquillo. Si chiama Liam Brady, è il primo straniero della Juve dopo la riapertura delle frontiere. Porta classe e due scudetti, il terzo e il quarto del l’era-Trapattoni. Nel 1980-81 il Trap gli consegna la maglia numero 10 di una squadra senza acuti, una sorta di cooperativa del gol di cui alla fine l’irlandese sarà il miglior realizzatore, a quota otto. Quello del 1981-82 è il tricolore della seconda stella. Si risolve a quindici minuti dal fischio finale dell’ultima sfida, a Catanzaro. L’irlandese sa già che dovrà andarsene, per fare spazio a Platini e Boniek, ma ha un cuore grande come la sua terra, e un’anima nobile: esce di scena realizzando il rigore che vale il campionato.
Re Michel. Parte in salita, arriva a Torino malato in una stagione, il 1982-83, che dovrebbe essere di gloria assoluta: «Nessuno ha mai avuto il nostro potenziale, in attacco» assicura il Trap. Pensa a Platini, Boniek, Rossi, Bettega. In campo l’alchimia non funziona, sullo scudetto mette le mani la Roma. Resta la Coppa dei Campioni, il sogno mai realizzato. Ci arriva a un passo, la Juve. Ma la lascia nelle mani del l’Amburgo, ad Atene, il 25 maggio del 1983. La delusione è forte, Trapattoni è a un passo dall’abbandono.
La società lo ferma, e non sbaglia. Arrivano Coppa Italia e Mundialito per club, re Michel si risveglia. L’anno dopo segna a raffica e guida il gruppo che mette le mani su campionato e Coppa delle Coppe. Bel tipo, Platini. Idee calcistiche pratica mente opposte a quelle del Trap, lingua abbastanza lunga per discuterne: «Mister, andiamo avanti, perché se teniamo la palla lontana dalla nostra area rischiamo meno». «Bravo, Michel. Ma intanto fammi vedere chi ce l’ha, la palla». Bel tipo, Platini. Inimitabile, Trap. Così diversi, così uguali nella voglia di arrivare, di vincere.
Il dramma dell’Heysel. Nemmeno un’ombra di sorriso, in fondo a una stagione arricchita dal successo più grande, quello che ancora mancava in bacheca. Una stagione in salita, dopo l’addio di Boniek, di Rossi, di Tardelli, con Platini che si lecca le ferite di un Europeo vissuto da trionfatore. Quel 29 maggio 1985, allora, è l’appuntamento con la gloria. Da non perdere per niente al mondo. E dovrebbe finire in festa, dovrebbe. Invece ci sono quegli attimi di follìa, ci sono le facce rabbiose dei teppisti inglesi, c’è il disorientamento della polizia belga. Heysel, Bruxelles: Juventus batte Liverpool 1-0, e trentanove vite spezzate, trentanove corpi portati via in fretta dagli spalti. Si gioca, si vince. Ma come si fa a sorridere? «Questa ferita resterà sempre aperta» sussurra Giovanni Trapattoni. Che entra nella storia nel giorno in cui la storia ha altro a cui pensare.
L’ultima sfida. L’anno del commiato, appunto. Finisce tutto lì, a Lecce. Con il sesto scudetto in dieci anni, e un bilancio da far paura: 462 partite a dirigere la Juventus, signora del calcio, dalla panchina. Con quei sei tricolori, con due Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa, un Mundialito. Ricordi, per uno come il Trap. Che certo affiorano, sulla panchina di Lecce, ma subito tornano al loro posto. Non c’è tempo, per i ricordi. Bisogna pensare al futuro. Nerazzurro.
Quello storico record
Cinque anni a Milano. Un altro ciclo, forse non continuo come quello bianconero, ma significativo. C’è il segno, c’è la firma d’autore. E c’è un record, destinato a restare nel tempo. L’Inter del Trap, quella dei carrarmati tedeschi Matthäus e Brehme, arriva in alto al terzo tentativo. Più in alto che mai: stagione 1988-89, 58 punti in 34 giornate quando ancora la vittoria ne vale due. Un volo. Nato da una rifondazione: la prima Inter del Trap registra la delusione-Scifo, è un gruppo senza troppo mordente. Che rinasce intorno alla concre tezza dei tedeschi, appunto, all’arrivo in extremis di Diaz al posto di Madjer, alla forza d’urto di Berti a metà campo, alla “scommessa” Mandorlini, che Trapattoni inventa libero ricevendone in cambio un’annata da incorniciare.
È una squadra da primato, una macchina da gol messa in piedi da quello che viene unani memente considerato un tecnico che copre e si copre, e che da sempre rifiuta i luoghi comuni: «Non mi piacciono, le etichette. La più pesante, poi… quella maledetta storia secondo cui sarei un allenatore difensivista. Le mie squadre hanno sempre segnato più delle altre». Appunto.
L’altra perla è anche un atto finale. L’ennesimo sipario che si abbassa, tra gli applausi. Prima di chiudere con l’Inter, Giovanni Trapattoni le regala un successo europeo che mancava da ventisei anni. Vince l’edizione 1990-91 della Coppa Uefa, battendo la Roma in finale. E saluta.
Tornando a Torino, alla Juve, ma senza la convinzione-presunzione di poter aprire un nuovo ciclo. Per ché, dice, «il calcio italiano sta cambiando e ha sempre bisogno di facce nuove. Ma soprattutto a Milano le cose vengono bruciate in fretta. È una frenesia che cogli nell’aria, che contagia tutti. Non c’è difesa. Anche Sacchi si è arreso allo stress, e vedrete che dopo me non ci saranno più cicli quinquennali all’Inter. Chi arriva resterà uno-due anni, e via». Profetico. Lui, intanto, riparte. Lascia una squadra cresciuta, un Berti valorizzato, un Bianchi in grande spolvero. Oltre a uno scudetto e a una Coppa Uefa. E si rituffa nel nuovo, perché come al solito sa che non si finisce mai di imparare. «Il Trap che se ne va non e più quello di Bilbao. Ho riempito le valigie di materiale prezioso. Si chiama aggiornamento». Curioso della vita. E del calcio.
Ritorno amaro
Gli insulti no, quelli non te li aspettavi. Forse è proprio ve ro, i luoghi della gloria non andrebbero mai rivisitati. Nemmeno se ci hai vissuto i tuoi giorni migliori. Non è mai stato facile, d’accordo, neanche quando vincevi quello che nessun altro ave va vinto. Nemmeno ad Atene, era stato facile. Ma questa Juve, la tua seconda Juve, è una macchia sul vestito buono. «Trapattoni, vattene» recita lo striscione della curva. È il 2 aprile 1994, è il tempo degli addii. E in fondo quella frase secca, ingrata, te l’aspettavi. Ti attaccano tutti, mica solo la gente dagli spalti. I giocatori si difendono dalle critiche confidando, nemmeno troppo sottovoce, i loro malesseri. Non tutti, ma quelli che bastano per far saltare gli equilibri. Ti scaricano, ti dicono che sei vecchio, per questo calcio. E tu, Giovanni Trapattoni, abituato a lottare e a incuriosirti di tutto, non ci stai.
E sbotti: «Non è serio, questo mondo. Non mi preoccupa aver ricevuto il benservito, ma avrei voluto che arrivasse a maggio, se non altro per la serenità di tutti».
Lo hai capito anche tu che è un altro mondo. Ma non per questo rinunci a lottare. «Anche l’Avvocato mi ha telefonato. Mi ha spiegato, con pacatezza, che bisogna dar spazio ai giovani. Anche io sono vecchio, mi ha detto. D’accordo, largo al nuovo che avanza, ma io non mi arrendo. Perché ho ancora l’entusiasmo di un ventenne».
L’altra Juve è un capitolo amaro. Tre stagioni. Accolto come la salvezza dopo la caduta di Maifredi, sulle braci adesso, insieme all’amico Boniperti, bollato anche lui come retaggio di un calcio antico e superato. I discorsi di sempre: difensivista, noioso, bollito. E il mito del Vincente che si appanna per colpa di una squadra che appare sfibrata e stanca, di un gruppo che sta perdendo la sua forza. Non è servita neppure la Coppa Uefa vinta l’anno precedente, stagione 1992-93, mettendo in fila Benfica, Paris St. Germain e Borussia. Con quel trio d’attacco, Baggio-Vialli-Möller, su cui contavi per rinverdire i fasti dell’altra Juve, quella di Boniek-Rossi-Platini prima, di Laudrup-Platini-Serena poi.
Invece è un’altra storia. Non serve sapere che dopo il Milan dell’era Capello, comunque, ci sono i tuoi ragazzi. Non serve evidenziare l’irresistibile ascesa di Moreno Torricelli, un giocatore (l’ultimo dei tanti) su cui hai scommesso, signor Nessuno che è diventato un piccolo re. Basta, si chiude e questa volta è per sempre: «Ho dovuto sentire troppe volgarità, a un certo punto avevo pensato anche di lasciare il calcio, di cambiare vita». In Italia non ti hanno aiutato a tornare sui tuoi passi. In Germania sì. Il Bayern, l’amico Beckenbauer, gente che ci crede ancora. E allora rieccolo, l’entusiasmo. Arrivederci, Italia. Sì, perché Giovanni Trapattoni lo rivedrete, poco ma sicuro.
Germania Anno Zero
Strunz. Ma no, che non si passa alla storia solo per una sfuriata. Non succede, se ti chiami Trapattoni. Però, Thomas Strunz se la ricorderà, e con lui Mario Basler e Mehmet Scholl, i sovversivi che avevano rilasciato dichiarazioni decisamente critiche sul la gestione tecnica della squadra. «Was erlaubt sich ein Strunz?» come si permette uno Strunz? «Due anni che è qui, ha giocato dieci partite, è sempre infortunato. Dicono di essere malati e poi vanno a giocare a tennis…». Il fatto è che l’impronta del Trap si è stampata ben bene sul calcio tedesco. Dove, se hai nome e blasone, in campo sei quasi inamovibile, o almeno lo eri prima che arrivasse lui. Lui che prima di farlo con Strunz e compagni, molto meno platealmente, aveva dato un assaggio della sua dottrina ad altri: Basler, Scholl, Klinsmann. «Io devo pensare soprattutto alla squadra, e se per vincere devo cambiare Klinsmann lo faccio. Anche se poi prende a calci la panchina». Così, la Germania del Trap è l’arrabbiatura solenne chiusa con quel «Io sono finito», che in realtà significava non solo fine dei discorsi, ma anche fine di un altro ciclo, di un’altra avventura.
È quella manciata di frasi a effetto che sono finite anche in ed ( “Il rap del Trap”, hit del 1998 nelle discoteche tedesche), hanno vinto un premio televisivo e hanno ricordato a tutti che la grinta è quella dei tempi migliori: «Rumenigge e Beckenbauer, dopo lo sfogo, mi hanno detto che finalmente mi riconoscevano…». Ma la Germania del Trap, a conti fatti, è molto di più. Un viaggio in due tempi (in mezzo, la parentesi triste di Cagliari, l’unico abbandono in corsa del numero uno dei tecnici), arricchito da uno scudetto storico, festeggiato da Giovannino Senzaetà coi suoi ragazzi, in campo il 24 maggio del 1997 e qualche giorno dopo, in costume tirolese, per le strade di Monaco in festa. È la Coppa di Lega tedesca conquistata due mesi esatti più tardi, ancora un trofeo da sistemare in una bacheca che più ricca non si può.
E le mille panchine in carriera, festeggiate al Parco dei Principi il 5 novembre del 1997, durante Paris St. Germain-Bayern, sfida di Champions League. Dice: e chi mai poteva essere, il primo tecnico straniero in grado di vincere il titolo nella storia della Bundesliga? Risposta troppo facile, come troppo facile sarebbe accontentarsi e sedersi sui nuovi allori. Non è cosa, per Giovanni Trapattoni. E allora via, verso una nuova avventura.
Insomma, a forza di correre eccoci arrivati al Duemila. E Giovannino da Cusano, con quel sorriso furbo da eterno ragazzo, ne ha combinata un’altra delle sue. Si è seduto sulla panchina della Fiorentina, lui che per il tifo viola era considerato un “gobbo dentro”. Di più. Ha portato a Firenze gente come Torricelli e Di Livio, ieri simboli bianconeri e ora tra i più puntuali all’appuntamento con l’applauso in mezzo all’erba del Franchi. Altre scommesse, altre vittorie. Nel campionato 1998-99 la Fiorentina lotta a lungo per lo scudetto e si laurea campione d’inverno, guidata soprattutto da un Batistuta in forma strepitosa. Salvo cedere il primato a febbraio, a causa di un infortunio del suo goleador, mentre Edmundo attira su di sé un mare di critiche critiche per essersi recato al carnevale di Rio de Janeiro mentre la squadra era in difficoltà. Il tabelone finale recita Fiorentina terza, e Champions League acciuffata dopo 30 anni esatti.
La stagione che inaugura il nuovo millennio invece è in chiaroscuro. Da dimenticare il campionato, solo settima e Uefa acciuffata per un soffio. In Champions invece la cavalcata è entusiasmente. Eliminato il Widzew Lodz nei preliminari, nella prima fase a gironi termina al secondo posto dopo aver battuto l’Arsenal in Inghilterra per 1-0 con una splendida rete di Batistuta. Nella seconda fase a gironi l’inizio è nuovamente spettacolare con il Manchester United trafitto al Franchi per 2-0. Impresa vanificata poi per la sconfitta con il Valencia e il doppio pareggio con il mediocre Bordeaux. Il talismano del Trap sembra voler avvertire che a Firenze è arrivata l’ora dell’addio: Due stagioni altalenanti, grandi imprese e grandi tonfi, ma il sogno è ancora vivo
Il sogno ora ha il colore del cielo: è l’azzurro della Nazionale, il sogno di ogni bambino, di ogni calciatore, di ogni allenatore. Ironia della sorte, a cedergli la panchina azzurra è proprio Dino Zoff, compagno di mille avventure nell Juventus bonipertiana. Il 3 settembre 2000, a Budapest, l’esordio sulla panchina azzurra in Ungheria – Italia, valevole per la qualificazione ai Mondiali 2002, terminato 2-2. E il 7 ottobre 2000 la prima vittoria: 3-0 al Meazza contro la Romania. Quasi un anno dopo – il 6 ottobre 2001 – concludendo al primo posto il girone di qualificazione, l’Italia accede alla fase finale dei Mondiali di calcio 2002 di Giappone e Corea.
Trapattoni e la Nazionale, un avventura nata sotto i migliori auspici, è un rapporto che si consuma lentamente. La bussola sembra impazzita, e l’ago che indica in Roberto Baggio la rotta da seguire, cambia direzione e l’Italia che si presenta ai Mondiali asiatici è lenta e asfittica, bloccata e impoverita. Non sembra l’Italia del Trap quella che si arrende alle plateali smancerie dell’arbitro Moreno. Tutti a casa in anticipo ma Giovannino da Cusano ha ancora in tasca due anni di contratto, spesi nel girone di qualificazione a Euro 2004. Un gironcino facile facile, un compito fin troppo comodo per il Trap che nel biennio 2002-2004 registra come unico acuto una vittoria in Germania nell’agosto 2003. Il canto del cigno avviene in Portogallo dove una nazionale ancora troppo paurosa viene eliminata al primo turno grazie ai pareggi con Danimarca e Svezia e l’inutile vittoria sulla Bulgaria.
Lo stesso Portogallo che vide il Trap annaspare con gli azzurri, è il la nuova frontiera: il Benfica non vince il titolo da ben 11 anni e vuole andare sul sicuro. Detto fatto e il Giovannino conquista il suo secondo titolo all’estero. Ma non è finita l’eterna avventura. Nel giugno 2005 Trapattoni sigla un nuovo contratto, ancora in terra teutonica. Lo Stoccarda gli fa firmare un biennale, tornando così in Bundesliga dopo 7 anni. Ritorno amaro condito con l’esonero, dopo un campionato mediocre, il 10 febbraio 2006.
Tre mesi di stop e Trapattoni si ritrova allenatore e direttore tecnico del Red Bull Salisburgo, dove nella sua prima stagione è coadiuvato dal suo ex pupillo ai tempi dell’Inter Lothar Matthäus (poi sostituito da Thorsten Fink) e dove il 29 aprile 2007 vive, con cinque giornate di anticipo sulla fine del campionato, il suo ennesimo trionfo da allenatore. E per il Trap diventano 10, in quattro paesi diversi (Italia, Germania, Portogallo ed Austria) gli scudetti conquistati, un primato condiviso solo con un altro grandissimo: Ernst Happel.
Alla soglia dei settant’anni il richiamo del prato verde è ancora irresistibile. Ed è proprio la verde Irlanda, complice l’emissario Liam Brady, a convincere il Trap per la sua ultima avventura: portare l’Eire ai Mondiali dopo 16 anni di assenza. Un impegno preso come al solito con l’entudiasmo di un ragazzino. Il Trap, uno che non vuole sfiorire, e ti spiega il perché: «Rocco diceva sempre: il mondo sta cambiando, no xe el mi mondo. Io dico che questo è ancora il mio mondo, che chi resta indie tro diventa patetico. E mi sono abituato a non dire mai “ai miei tempi “».
Perché i suoi tempi sono presente e futuro. Anche se un giorno, assicura, tornerà alle origini del calcio: «Non sono mai stato fermo. Un domani, piuttosto che perdere tempo al parco pubblico, chiederò a qual cuno di farmi insegnare calcio ai bambini. Il massimo, per chi ama il mio lavoro».
Un domani, certo. Se ne riparlerà. Intanto, arrivederci alla prossima avventura. Gli eroi, si sa, non invecchiano. Soprattutto dentro.