Caro papà,
a quest’ora, 6 anni fa, già mi avevi lasciato e con te se ne andava definitivamente la parte più allegra e ottimistica di me stessa.
Mi lasciavi prematuramente per tanti aspetti, non solo per i tuoi 65 anni e miei 37: la malattia e le sofferenze dei 15 anni precedenti ti avevano distrutto e ne uscivo a pezzi pure io, a tal punto che il giorno prima che tu spirassi avevo chiesto a Dio, a Cristo, di porre fine a cotanto strazio.
In pochi possono capire ciò che abbiamo vissuto e tu eri saggio nel dire che ‘o dolore e’ di chi ‘o sente, non di chi passa e tene mente.
Così ti ho salutato per sempre, ho seppellito con la tua salma la mia fanciullezza, i miei sorrisi più autentici e l’amore più grande che avessi mai provato per un essere umano.
Per te avevo accelerato eventi emozionanti, come la mia seduta di laurea, la prima figlia, il matrimonio: avevo paura di non renderti felice abbastanza, di non averne il tempo, di non riuscire a ricambiare l’amore che mi avevi donato ed insegnato a provare.
Ricordo che sin da piccola temevo di perderti: mi nascondevo e cominciavo a pregare per la tua salute, affinché il Signore o chi per esso ti donasse una vita lunga e felice. Diciamo che invece, proprio con te, che eri smisuratamente buono, lui non è stato assai benevolo, mentre con i malvagi poi ero costretta a constatare che aveva più riguardo: così anche la fiducia in Dio vacillava e mettevo sempre più in discussione la sua esistenza, la sua giustizia. Ad ogni tua operazione chirurgica, ad ogni chemioterapia, ad ogni straziante dolore, persino ad una morte indegna e ingiusta.
Ma di morti ingiuste ce n’erano e ce ne sono sempre a bizzeffe e forse Dio non ha nulla a che fare con esse.
Tu, papà, intanto mi dovevi lasciare, avevi lottato e sofferto abbastanza, per i 15 anni che in definitiva avevo chiesto a Cristo nel momento in cui ti avevano diagnosticato un cancro: così mi lasciavi il 31 marzo di 6 anni fa, sulle note fischiettate dei Giardini di Marzo di Battisti, che era una delle poche cose che hai ricordato fino alla fine dei tuoi giorni.
Spesso recito per te il Requiem aeternam, così come la tua mamma, una donna esemplare, di quelle che nessuno dimentica e che non ne nascono più, mi aveva insegnato, in un latino inizialmente maccheronico, che poi ho potuto perfezionare, anche grazie a te che mi hai permesso di studiare. Eri così orgoglioso quando prendevo un 7 o addirittura un 8 al Ginnasio: ti brillavano gli occhi, così come ad ogni esame universitario superato e mi piace pensare che saresti orgoglioso anche adesso della tua figlia sgangherata che è diventata direttrice a scuola, senza aiuti e raccomandazioni.
Il terzo figlio che porto in grembo non servirà certamente a riempire il vuoto che hai lasciato dentro di me quando sei andato via: di te non parlo spesso e se piango lo faccio di nascosto perché sono gelosa persino del mio dolore, dei ricordi, della speranza effimera di rivederti.
Sappi però che il mio dolore e la mia rabbia probabilmente cesseranno solo quando pure io morirò e che la tua morte non riuscirò mai ad accettarla proprio per il semplice motivo che la tua assenza è infinitamente grande.
Spero tu possa almeno riposare in pace, esista o meno qualcosa dopo la morte: nel frattempo farò in modo di somigliarti almeno un po’ nel rallegrare le persone che mi circondano.
Ti amo tantissimo, papino.
Tua figlia,
Annalisa Capaldo