Sul mio libro di letteratura del liceo c’erano delle pagine dedicate a Nedda e io le lessi perché io ero fatta così: leggevo la parte antologica del mio libro di letteratura al di là di quello che ci assegnava la prof. Fu così che io scoprii non solo Nedda ma anche ‘Ora che non mi dici niente’ di Sbarbaro, scoprii lo spleen di Baudelaire e ‘Sogno di un prigioniero’ di Montale.
Io ero fatta così, leggevo e trovavo, attraverso le parole degli altri, le parole con cui avrei poi dato la mia personale forma al mondo: trovavo l’ angoscia, il sollievo, la tenerezza, la rabbia, la speranza, lo sconforto, la tenacia e un ventaglio infinito di possibilità. La me del liceo aveva un rapporto molto carnale con la letteratura perché mentre la prof mi insegnava a ragionare sui testi e sulle teste degli autori, io sperimentavo poi, da sola, la pienezza della parola. Lei mi offriva degli strumenti e sue lenti, io costruivo il mio mondo (quella roba che chiamiamo competenze e che passa SOLO attraverso la lettura diretta). La me del liceo probabilmente avrebbe scelto Nedda e molto probabilmente non avrebbe affatto pensato a tutta la roba del paratesto: verismo, preverismo e tutti i bla bla bla della critica. La me diciottenne avrebbe parlato di sofferenza, di deserto dell’esistere e di possibilità inaridite come le stoppie del Sud. Avrebbe probabilmente parlato di una donna doppiamente discriminata:dalla povertà e dal suo essere donna e forse avrebbe anche parlato di speranza, della vita che resiste nonostante tutto. A me Nedda all’epoca piacque molto. Non l’avevo mai più letta, neanche all’università, dove invece mi dedicai ad altro. Oggi, grazie alla disputa sulle prove d’esame, l’ho riletta e mi sono proprio rivista diciottenne a leggere Nedda: cucina di casa dei miei, pomeriggio caldo e assolato di un paese del sud, tapparelle rosse abbassate perché così si sta più freschi e non entra il caldo di fuori e dalla strada il silenzio della controra.