In un Paese di poeti, santi, navigatori e politologi fa tendenza in questi particolari giorni riflettere sul regalo più grande che la Lega potesse ricevere: diventare, almeno in Parlamento visto che nel Paese le cose sono già cambiate, il partito di maggioranza relativa. Niccolai è diventato un modo di dire, un’unità di misura del “tafazzismo”. Una crisi di governo era stata così commentata da Francesco Storace di An: “D’Alema ha fatto un autogol alla Niccolai”.
Il Cagliari del ’70 era forte e brillava per originalità anagrafica. Il regista faceva Greatti di cognome e Ricciotti (????) di nome. Poi c’era lui, Niccolai, battezzato Comunardo dal padre antifascista ed ex portiere del Livorno. Comunardo in onore della rivoluzione francese di fine Settecento e della Comune di Parigi vera e propria, istituzione proletaria che governò per poche settimane nella primavera del 1871. Niccolai veste con disinvoltura il nome da ribelle: “C’è chi mi chiama Comu e chi Nicco”. Sei autoreti, si è detto. La più clamorosa a Torino contro la Juve nell’anno dello scudetto, 15 marzo 1970. Una bella foto la immortala: Niccolai di testa anticipa il portiere Albertosi, già con le braccia pronte alla presa, e infila la propria rete. Gigi Riva con una doppietta rimise le cose a posto, Juve-Cagliari 2-2.