I costi dell’energia sono alle stelle e ci prepariamo, a quanto sembra, ad un inverno “freddo” (nel senso letterale del termine). Ma come è possibile che una nazione come l’Italia che, per latitudine e posizione geografica, ha il monopolio del sole e dei venti possa ritrovarsi a dover intraprendere un piano di razionamento dei combustibili. Se ci ritroviamo in questa situazione, come vedremo, la colpa è principalmente nostra.
Ad oggi importiamo quasi completamente petrolio e gas, materie prime necessarie per soddisfare quasi il 70% del nostro fabbisogno energetico. Un approvvigionamento che “paghiamo” a caro prezzo, circa 40 miliardi di euro all’anno (con gli aumenti non sapremo a quanto arriveremo). Soldi che alimentano, è inutile nascondersi dietro comode ipocrisie, regimi totalitari e guerre.
Nel novembre 1987, io avevo 10 anni e frequentavo la quinta elementare, gli italiani votarono un referendum che portò alla chiusura delle centrali nucleari esistenti. Una decisione che, sicuramente influenzata da quanto successo l’anno precedente a Cernobyl, avrebbe avuto effetti duraturi e significativi sulle strategie di approvvigionamento energetico del nostro Paese.
In quegli anni i consumi energetici aumentavano costantemente (+40% tra il 1981 e il 1991) soprattutto per una potenza industriale qual era il nostro Paese. Anni in cui la politica energetica era pianificata e accentrata su due enti nazionali, quello degli idrocarburi (Eni) e quello dell’energia elettrica (Enel). Enti gestiti dallo Stato e nell’interesse dello Stato.
Nell’agosto 1988, a soli nove mesi dal referendum sul nucleare, il governo, presieduto da Ciriaco De Mita, non si fece trovare impreparato ed approvò il nuovo Piano energetico nazionale (PEN) che puntava ad aumentare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili del 50% entro il 2000. Per attuare il Piano vennero approvate la legge 9 “dedicata alla ricerca e sfruttamento degli idrocarburi” e la legge 10 “dedicata alla promozione dell’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili”. Dovevano essere le colonne portanti per la nostra autonomia energetica, ma gli anni successivi furono un completo disastro e vedremo perché.
- La colonna portante dell’efficienza energetica e delle rinnovabili.
La legge 10 del 1991, molti la conoscono oggi per via del Super Bonus 110%, conteneva alcune importanti misure innovative: l’obbligo di nomina di un ”energy manager” per il settore industriale e terziario con consumi superiori a determinate soglie; la certificazione energetica per tutti gli appartamenti o gli edifici venduti o affittati; limiti al consumo energetico dei nuovi edifici; l’obbligo all’integrazione di impianti rinnovabili in edifici pubblici; la contabilizzazione del calore e la termoregolazione in tutti gli edifici; e finanziamenti a fondo perduto dell’investimento necessario per l’efficientamento. Solo alcune di queste norme ebbero effettiva applicazione, per responsabilità di una classe dirigente che solo un anno dopo venne travolta dalle inchieste di “Mani pulite”.
Basti pensare che il decreto che avrebbe dovuto regolare i limiti al consumo energetico dei nuovi edifici è stato approvato addirittura nel 2005, 14 anni dopo. La cosa che rasenta il ridicolo è che, meno di 30 giorni dopo, il decreto non serviva più perché occorreva un nuovo testo (il 192/2005) per recepire la direttiva europea in materia.
In pratica: anni di ritardo per l’efficienza energetica e le rinnovabili nel dimenticatoio.
- La colonna portante della ricerca e sfruttamento degli idrocarburi.
Si puntò al completamento delle infrastrutture, soprattutto la metanizzazione. Il risultato, tuttavia, portò ad una situazione inversa: la nostra produzione, infatti, riusciva a soddisfare appena il 10% della richiesta e si iniziò ad “importare” gas. Di fatto siamo diventati “dipendenti” da altri.
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Nonostante una “visione politica” corretta, che ha prodotto un piano energetico concreto e programmatico, siamo riusciti, in pochi anni, a perdere la nostra autonomia energetica e “dipendere” dagli umori degli altri. Ma come è stato possibile?
Siamo agli inizi degli anni 90, in piena crisi “Mani Pulite”, la Politica è debole ed il Piano energetico ipotizzato non solo si arenò, nelle sabbie mobili della burocrazia italica, ma le scelte attuative furono affidate a governi tecnici che hanno dimostrato essere per nulla lungimiranti, anzi.
L’obiettivo dei “tecnici” non si è dimostrato essere il futuro, ma semplicemente la quadra dei conti nel presente. La dipendenza da fossile, negli anni ‘90, raggiunse il 90%. Infatti, si puntò sulla cogenerazione e l’incentivo alle rinnovabili, di fatto, andò a finanziare per oltre l’80% la grossa cogenerazione industriale: soprattutto dell’industria fossile, come ad esempio le raffinerie del gruppo Saras dei Moratti o di Api Energie.
Nei primi anni 2000 quando l’Unione europea obbligò il nostro Paese a promuovere efficienza energetica e le fonti di energia rinnovabili, praticamente quello che l’Italia aveva già immaginato nel 1987. L’Italia risponde bene e l’incremento delle rinnovabile porta la nostra dipendenza energetica, da fonti fossili, dal 90% al 70%.
È inutile nascondersi dietro un dito. Abbiamo rinunciato al nucleare, scelta legittima, ed il Governo dell’epoca ha risposto rapidamente con un Piano energetico serio ed ambizioso.
Gli anni successivi hanno sostituito una generazione politica, contestabile sotto certi aspetti ma efficiente sotto altri, con una nuova classe dirigente che, in termini di politica energetica, si è dimostrata inadatta e fallimentare.
Sarebbe bastato concretizzare le strategie energetiche ipotizzate negli anni 80, ma siamo stati del tutto inadeguati.
Oggi ci troviamo difronte ad un bivio: far finta di nulla e continuare ad approvvigionarsi oppure dare una svolta energetica a questo Paese.
È la scelta tra il tutto e subito oppure guardare avanti verso scelte ambientali e sostenibili che possono anche creare nuove prospettive di lavoro alle generazioni prossime.