In una società che si avvia a configurarsi sempre più come multiculturale e multietnica, il rapporto tra appartenenze di gruppo, le percezioni e i comportamenti concreti costituiscono un problema che la psicologia sociale può contribuire a comprendere. Riconoscere l’esistenza del pregiudizio come atteggiamento nei confronti degli individui potrebbe portare a cambiare gli elementi che costituiscono l’atteggiamento e, quindi, anche il comportamento. Una delle possibili soluzioni per ridurre le tensioni interetniche è il contatto diretto con gruppi o persone provenienti da altri contesti culturali, poiché è solo attraverso la conoscenza che possiamo acquisire informazioni che, di fatto, riducono il pregiudizio e la conflittualità. Del resto l’emigrazione è una realtà costante della storia umana. Come costanti sono le ricche e belle storie di gente diversa che incontrandosi trovano un comune destino.
Nella Bibbia troviamo descritta una di queste belle storie. Una storia di integrazione riuscita è racchiusa nel libro di Rut la moabita, la straniera. Nel libro di Rut dell’Antico Testamento non troviamo alcuni precetti a favore degli stranieri, che pure sono numerosi in altri libri della Bibbia, ma troviamo una storia, esemplare, una bella storia di accoglienza e di amore che vale la pena di approfondire. Il libro si apre offrendoci lo spaccato di un vissuto drammatico e chiuso alla speranza. È la situazione di una famiglia, dove le relazioni sono profondamente ferite dalla miseria e dalla morte. La vicenda ha inizio a Betlemme, che vuol dire “casa del pane”, che però, paradossalmente diventa terra della carestia. A causa di questa situazione di miseria, Elimèlech, che vuol dire “il mio Dio è re”, smentendo il suo nome, con la sua famiglia deve abbandonare quella terra e il Dio di quella terra e deve emigrare nella terra di Moab, e lì muoiono lui e i due figli, Maclon e Chilion che nel frattempo ferendo la legge (Esd 9,2; Ne 13,23-27) avevano sposato due ragazze moabite: Orpa e Ruth. Nel giro di dieci anni, Noemi, che vuol dire “grazia”, moglie di Elimèlech, si ritrova completamente sola, vedova e in terra straniera, in situazione di povertà radicale: «Il Signore è contro di me, l’Onnipotente mi colma di dolori» (1,21), esclama, e per la situazione che vive vuole essere chiamata Mara (amarezza). Da questa situazione drammatica, dove regna sovrana la morte, però, Noemi si rialza: «Noemi si alzò e decise di ritornare (…) lei e le due nuore, perché aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane» (1,6). Inizia, così, l’avventura di tre donne e per di più vedove e senza figli. Sono il seme della ricostruzione. Il cammino di ritorno non è facile, è il cammino di tre donne che non hanno voce. Durante il viaggio non tutto è chiaro, soprattutto per le nuore che non potranno avere un marito. Eppure, pur sentendosi una fallita, Noemi continua il viaggio, nell’oscurità, ma nella speranza. Di fronte alle difficoltà Orpa torna indietro, mentre Ruth, che vuol dire “amica”, invitata da Noemi: «Torna indietro anche tu, come tua cognata» (1,15), uscendo dall’apparente passività, in un solo versetto (1,16) manifesta un amore profondo per la suocera: «Non chiedermi più d’abbandonarti, di tornare indietro» (16a); una decisione libera e definitiva: «Dove andrai tu, verrò anch’io, dove abiterai tu, abiterò anch’io» (16b); il desiderio di far parte del popolo di Noemi: «Il tuo popolo sarà il mio popolo» (16b); e la volontà decisa di convertirsi al Dio d’Israele: «Il tuo Dio sarà il mio Dio» (16b). Una tradizione rabbinica vede in questa confessione di Ruth la moabita, la sua conversione al Dio d’Israele. Ruth è il modello perfetto da proporre ai proseliti: per la lucidità, per la convinzione e per il coraggio. Ebbene, se di conversione si tratta, c’è da sottolineare che Ruth arriva a Dio attraverso un percorso umano, ne consegue che l’incontro diretto fra le persone è luogo vero e decisivo della rivelazione di Dio, l’amore tra le persone è il fondamento e la misura della fede in Dio.
È l’amore che aveva messo in movimento Ruth, quando, in terra di Moab, si era innamorata di uno spiantato, figlio di immigrati, mettendosi contro la famiglia. Adesso, rimasta sola, vedova e senza figli, è ancora messa in movimento dall’amore. Si sente accolta da Noemi, nonostante la proibizione biblica: «Né l’ammonita né il moabita entri nell’assemblea del Signore, neppure alla decima generazione(…)» (Dt 23, 4-5); e, amata, tagliando i ponti con il suo passato, manifesta a Noemi un amore pieno e incondizionato, un amore assolutamente gratuito, non richiesto anzi, di per sé assurdo, inconcepibile, segnato da una certa “follia”, perché sa di andare incontro alla triste condizione del migrante. E così, durante il viaggio, seppure nell’oscurità, Noemi si accorge che qualcuno la ama più di quanto non si aspettasse. E stranamente questo amore è espresso da Ruth la moabita, donna segnata, già dalla nascita del marchio dell’idolatria e quindi esclusa dal popolo fedele. Il viaggio iniziato nella terra di Moab termina a Betlemme, “casa del pane”, ma come avere il pane se Noemi è priva di tutto? Guide sicure, nella ricerca del pane e del futuro, per le due vedove saranno la parola di Dio e il dialogo tra di loro. Lasciandosi guidare dalla parola di Dio esse scoprono la strada da seguire e vanno in cerca dei propri diritti, tra questi c’è quello di andare a spigolare nei campi. L’idea di andare a spigolare viene a Ruth (2,2). Era un suo triplice diritto di povera, di vedova e di straniera (Lv 19,9-10; Dt 24,19), eppure essa si comporta con la mentalità di chi chiede un’elemosina: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia»(2,2). Questo ci fa capire, di là della legge, qual era il clima che si respirava. Ruth casualmente si ritrova a spigolare nei campi di Booz. Anch’egli, che è detto «uomo potente e ricco» (2,1) si lascia determinare nelle sue decisioni, dall’amore. Egli accoglie con sguardo di predilezione Ruth fin dal primo incontro: «Di chi è questa giovane» (2,5) domanda al suo servo, ed è come se si fosse innamorato a prima vista, avendo saputo delle sue qualità. Senza imporle niente, quindi, le raccomanda di non andar via, le offre protezione, opportunità di spigolare e acqua (2,8-9). La bontà di Booz stupisce Ruth e quando ne chiede il motivo: «Per quale motivo ho trovato grazia ai tuoi occhi, così che ti interessi di me che sono una straniera?» (2,10) viene fuori che è sempre l’amore a determinare le scelte e il comportamento di Booz: «Mi è stato riferito tutto ciò che hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria (…) Il Signore ti ripaghi per quanto hai fatto, il Signore Dio d’Israele sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti» (2,11-12). Di fronte alla generosità di Booz, cresce in Ruth il senso della riconoscenza, espresso con un lessico che richiama un amore più grande: «Essa gli disse: “Possa io trovare grazia ai tuoi occhi, o mio signore! Poiché tu mi hai consolata e hai parlato al cuore della tua serva(…)”» (2,13). Nella Bibbia parlare al cuore è il linguaggio dell’amore che restaura e rinnova la vita di dentro. Parlare al cuore aveva, dunque, a che vedere con rinnovamento e liberazione. Ora questo rinnovamento e questa liberazione stanno entrando nella vita di Ruth. Nel momento stesso in cui essa sente la preghiera di Booz che le augura abbondanza, l’abbondanza comincia ad arrivare. Sente, infatti, la vita rinascerle dentro, sente la consolazione promessa dal profeta, sente le parole rivolte al cuore.
La preghiera di Booz è come una curva lungo il cammino. Superata la curva, si apre di colpo un nuovo orizzonte. Attraverso le parole di Booz è Dio stesso che restaura e rinnova l’esistenza di Ruth e di Noemi, che si china sulle relazioni umane ferite. Tornata a casa, Ruth apprende da Noemi che è capitata a spigolare da Booz che è loro parente, e tutte e due si rendono conto che tutto ciò non è capitato per caso, ma è dovuto a Dio che guida con misericordia e fedeltà il cammino dei suoi poveri. Da questa consapevolezza scaturisce l’azione concertata da due donne decisamente aperte alla speranza. Noemi pianifica tutto, Ruth comprende e con lucidità prende su di sé la responsabilità dell’azione: «Farò tutto quello che mi dici» (3,5). Senza paura, Ruth sceglie il momento del riposo, si corica ai piedi di Booz addormentato e, con chiarezza e coraggio, al suo risveglio, nel mezzo la notte, espone la sua richiesta: secondo la legge del levirato, Booz può essere il suo riscattatore (go’el). Glielo dice con una tranquilla semplicità e Booz, acconsentendo alla sua proposta, risponde: «Io farò per te quanto mi dici. Perché tutti in città sanno che sei una donna virtuosa» (3,10-11). È un momento questo di audacia inverosimile da parte di una donna! Eppure tutto si svolge in un clima d’innocenza autentica, di singolare libertà di fronte alle convenienze sociali, ai pregiudizi maligni. Ruth sa chiedere con audacia, sa accogliere l’altro in sé come dono per lei e in questa sua capacità di amore acquista quella libertà interiore che le fa discernere ogni dono, ogni bene quando questo viene a lei. Di fronte all’audacia di Ruth, cresce la generosità della risposta di Booz. Prima aveva offerto a Ruth di ciò che aveva in abbondanza. Ora egli dona se stesso e dice: «Io farò per te quanto dici» (3,11). In tal modo, Booz “potente e valoroso” si impegna a soddisfare la parola e il desiderio di una straniera. «Così Booz prese Ruth, che divenne sua moglie. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: essa partorì un figlio» (4,13). In questa scelta Booz si limita a eseguire i suggerimenti delle due vedove (3,11), e il suo è un gesto di pura gratuità. Egli imita Dio prestando il proprio servizio perché Noemi e Ruth potessero avere un futuro: il figlio, la terra, il pane. Proprio per questo, il bambino che nasce a Betlemme, come figlio di Booz e Ruth, il futuro che si apre, non appartiene più solo a Booz e a Ruth. Appartiene alla grande famiglia, alla comunità del popolo. Perciò a imporre il nome al bambino, non è la famiglia, ma è il popolo della strada, sono le vicine (4,17). Chi accoglie il figlio non sono né Booz né Ruth, ma è Noemi, sarà Noemi ad allevarlo, facendogli da madre (4,16). Nascendo da Booz e da Ruth il bambino ha fatto rinascere la speranza di tutta la famiglia di Noemi. Benché sia nato da Ruth, «è nato un figlio a Noemi» (4,17), dicono le vicine. Appena nato, il bambino supera già i confini della sua piccola famiglia. Nasce già figlio del popolo. Il suo nome è Obed che vuol dire “servo”. Egli è il vero go’el di tutti, chi riscatta la fallimentare storia di Noemi, di Ruth, di Booz; ma anche chi riscatta la storia futura. Obed, infatti, «fu il padre di Jesse, padre di Davide» (4,17), colui che apre la strada al messia. Il racconto del libro di Ruth evidenzia che il Signore Dio si china sulle ferite dell’umanità, presenti nella trama del libro, attraverso i gesti degli stessi personaggi. La liberazione dei poveri è opera di Dio, ma è affidata agli uomini. Dio, spesso, si confonde con la voce degli uomini. Nel racconto, Booz più di tutti è manifestazione dell’amore di Dio per la vedova e lo/a straniero/a. Uomo “potente e valoroso” pieno di fede, è figura della fedeltà di Dio, generosa e delicata verso i più deboli (2,8-9). Una generosità che è condivisione (2,14), servizio (2,15-16), amore che soccorre e dà fiducia, protegge (3,14) e colma di beni (3,15). Questo amore di Dio per la vedova straniera, espresso nei gesti di Booz, trova la sua valenza più significativa nel fatto che Ruth, la moabita, sia introdotta nella famiglia giudaica.
Molto probabilmente questo evento è il fine del racconto, e mostra che la presenza in Israele di una donna straniera è sentita come manifestazione della provvidenza di Dio: apertura a un universalismo superiore alla rigidità della legge (Dt 23,4). La narrazione ci dice che non solo i valori di Israele possono essere accolti anche da stranieri, ma che anche uno straniero è dono per Israele. Attraverso Ruth, Dio estende la sua alleanza a tutti i popoli. È indicativo che essa sia paragonata a Rachele e Lia (4,11), le due donne che sono le madri del popolo d’Israele (4,11). Il libro di Ruth ha una forte valenza profetica. Esso è richiamo esplicito contro le discriminazioni in atto nel nostro mondo. Sia nei confronti della donna in genere sia nei confronti degli stranieri. La grande tesi del libro di Ruth è che Dio si fa provvidenza per l’uomo attraverso l’uomo stesso. La liberazione dei più deboli da ogni forma di schiavitù tocca a noi, singolarmente e comunitariamente. Non sono concesse deleghe o supplenze. Su ognuno grava la responsabilità di farsi, anche nel modo più povero e nascosto, più apparentemente inutile, salvezza per il fratello. È quindi inutile sottolineare come sia attuale la lettura di Ruth in tempi di rigetto del forestiero, di timore del migrante, di disprezzo del bianco verso il nero, di guerre nazionaliste, di tensione fratricida fra l’integrista e il progressista, di sospetto fra le religioni occidentali e orientali e così via. La bella e giovane donna straniera Rut assomiglia tantissimo alle giovani e belle donne straniere che vengono nel nostro paese. I loro figli potrebbero essere una benedizione per i nostri paesi che hanno un tasso di natalità tanto basso, da essere preoccupante. Potrebbero essere i nostri figli. A noi, però, forse manca la saggezza di Noemi, e ci manca la sua umanità. Tanto che non riconosciamo come cittadini, è l’esempio dell’Italia, i più di cinquecentomila bambini, figli di immigrati nati nel nostro paese, che potrebbero rappresentare una benedizione per noi e, in parte il nostro futuro.