A proposito della terribile e vergognosa affermazione del Ministro Valditara sul valore educativo dell’umiliazione, un mio racconto breve, in ricordo degli sguardi di bambini e bambine che giravano per le classi con le orecchie d’asino. Erano fatti rari, eppure accadevano.
“Orecchie d’asino”
La mamma glielo stava dicendo da più di un mese: – Sisina, il primo ottobre comincerai la scuola. Abitava con suo padre, sua madre, altri tre fratelli più piccoli di lei e la nonna, in un cortile attiguo al palazzo rosso, dove al primo piano, si trovavano le aule delle elementari. Li vedeva ogni mattina, quando andava prendere il pane da Mariannina, i bambini e le bambine che, con la cartella di cartone, il fiocco e il grembiule nero, entravano nel portone. Aveva imparato a riconoscerli, Tutunniello, il figlio della panettera, Nannina, la figlia della putecara e perfino Antonino, il figlio di una delle maestre, che lo teneva sempre per mano e non lo lasciava correre e fare chiasso insieme a tutti gli altri che si spingevano e gridavano e dicevano pure delle brutte parole. La bidella Carulina abitava al piano terra e in vita portava una cintura con le chiavi appese. La madre le diceva sempre: – Carulì, mi pari santu Pietro, santu Pietro ca’ panza annanza. Infatti, Carulina era un’altra volta incinta, ma continuava a fare imperterrita il suo lavoro. Anche lei le stava dicendo da un bel po’ di tempo: – Sisina, è venuto pure per te il tempo della scuola – e, poiché non la vedeva convinta, sempre lo sguardo basso, imbronciata – vedrai, Sisina, quest’anno la prima tocca alla maestra Nebbia, è brava, vuole bene alle sue alunne, anche la mia prima figlia è stata con lei e ora che va alla scuola di ricamo, la va a trovare un giorno sì e un giorno no.
La maestra si chiamava proprio così, Nebbia, e una volta Carulina, d’estate, mentre sedevano fuori al vascio, sotto la pergola d’uva fragola che attirava mosche a non finire, aveva raccontato la storia di quello strano nome: – Sapete, si chiama così perché suo padre si innamorò di sua madre in una sera di nebbia, qua non c’è quasi mai, ma lì, nella pianura patana è veramente terribile, non fa vedere un c… acchio. Mi stava scappando una malaparola, davanti alle bambine! Il giovane si trovava nei pressi di Reggio Emilia, ma è originario di qua, abitava abbascio ‘o Mulino, ma se ne andò perché litigò con il caposquadra, alla frabbeca de Wenner, chilli piezze ‘e str… mi stava scappando un’altra malaparola, ma strunzi si può dire, sì, si può dire. Se ne andò a Reggio Emilia, da un fratecugino che già lavorava là e lo sistemò presso un fattore e lì faceva l’uomo di fatica. Ora dovete sapere che in queste grandi fattorie, era abitudine di mettere una scuola serale e, infatti, dove lavorava Giuvanno così si chiamava il giovane, ogni sera veniva una maestra e Giuvanno la guardava incantato, mentre li dettava le frasi e lui a fatica teneva la penna nelle sue manone. Una sera, la maestra, quando uscì, vide tutto lo spiazzo immerso nella nebbia, sembrava tutto latte, intorno. – Come farò a tornare a casa, ma come, già la nebbia, non me l’aspettavo mica – E Giuvanno, Zvanì, così lo chiamavano nella pianura patana, che al corso serale era il più bravo di tutti, si offrì di accompagnarla con la sua bici. La maestra della scuola serale aveva già messo gli occhi su quel giovane robusto e scuro di carnagione, con gli occhi neri, intelligente e sempre sorridente. Breve fu il tragitto in bici, lei si accostò a lui in po’ troppo, lui sentiva su di sé il calore del corpo di lei e decise che l’avrebbe sposata quella ragazza, la sua maestra, che parlava in modo così strano e che se ne andava in giro da sola. E l’avrebbe portata al paese.
Nel sole caldo di luglio, a Scafati, nacque la loro prima figlia: – La chiamo Nebbia – disse Giovanni all’impiegato dell’anagrafe. – Nebbia non si può -. – Si può perché io così voglio- . – E va bene, contento tu.” Carulina finì di raccontare la storia del nome Nebbia, perché le mosche le stavano dando troppo fastidio, si alzò di scatto e disse che aveva dimenticato i puparuoli sul fuoco e, infatti, si sentiva un odore di bruciato. E venne il primo ottobre. Il fiocco era enorme, a Sisina non piaceva, ma tutti nel cortile dicevano. – Quanto sei bella, Sisina, bellissima sei con questo fiocco e il collettone bianco. Era veramente bella, Sisina, con gli occhi grandi del colore del mare e con il viso chiaro chiaro in contrasto con il nero dei capelli. La nonna glieli accarezzò e, poi, le diede un bacio in fronte. La bambina si avviò verso il portone, seguita dalla processione dei parenti e dei vicini. La maestra Nebbia entrò in classe e subito a Sisina fu simpatica, anche perché ricordò la bella storia del suo nome. Sembrava brava, gentile, a lei la mise all’ultimo banco, anche se era abbastanza bassina e non vedeva bene alla lavagna. Al primo, la figlia del medico e la figlia dell’avvocato.
Arrivò Carulina, con il vestito che davanti era più corto, per via della pancia e riempì i calamai con l’inchiostro che portava in una bottiglia. Sisina, i primi giorni, si trovò bene. Bisognava fare le mazzarelle diritte e oblique sul quaderno a quadretti. Lei era precisa anche con le mazzarelle ricurve in alto e con il numero 1 non ci furono problemi. Le piaceva il libro di lettura, con quelle belle figure colorate di mamme, bambini, padri lavoratori, nonni e culle.
Poi si cominciò con i cartelloni. Iniziarono i guai per Sisina, cominciarono da subito, con le vocali.
A a ciuccio, lesse, invece di asino.
I i o ‘muto, lesse, invece di imbuto.
E e evera invece di erba.
Con la u andò meglio: uva. La maestra cominciò a rimproverarla, perché non imparava a leggere. Stava diventando un po’ cattiva con lei. Lei faceva di tutto, anche a casa, con il libro di lettura davanti, ma non riusciva proprio e rinunciò. -Ma cosa ha ‘sta criatura – disse la nonna – che si accorgeva subito quando qualcosa non andava- vieni qua, bella ‘ra nonna, ma fa che tieni a freve? Le cose peggioravano, lei scriveva bene i numeri, sapeva fare le addizioni 1+2= 3 ma le parole le saltavano davanti agli occhi, si arricciavano, scivolavano, giravano come in un vortice, si spaccavano in due o tre pezzi. E sempre sgridate e rimproveri. C’era un po’ di sollievo solo quando la bidella Carulina portava la pizza profumata di origano o le sasicce con i broccoli ( i maestri raccoglievano ogni mese i soldi necessari per la colazione): quando arrivava la bidella con ruoti e tielle, uscivano sul terrazzo a mangiare, a ridere e a raccontarsi le imprese dei loro alunni più ciucci. Poi giunse il momento del parto di Carulina. La maestra Nebbia lasciò l’aula, invitò la capoclasse, una bambina sempre pulita e profumata che non si faceva mai trovare, al controllo, con il collo o con le orecchie sporchi ma una volta i pidocchi invasero anche la sua lunga chioma, a segnare i nomi delle cattive e delle brave, tracciando una riga verticale a dividere in due la lavagna. Il primo nome tra le cattive fu Sisina Acanfora, perchè lei , all’uscita della maestra aveva subito gridato: Che bellezza, se ne va! Ma la gioia di Sisina fu grande, quando in classe, all’improvviso, entrò il direttore, un uomo piccolo, basso, con gli occhiali spessi da miope. Prima cancellò il nome alla lavagna, poi si sedette alla cattedra, e chiese ai bambini dove fosse la maestra Nebbia. – Dalla bidella che sta figliando, rispose pronta la capoclasse. Il direttore si fece serio, per pochi secondi, ma poi sorrise e disse: – Bene, bambini, cominciamo con i numeri. Sisina fu bravissima e il direttore le fece i complimenti.
Dopo un paio d’ore tornò la Maestra Nebbia, impallidì alla vista del direttore, farfugliò una scusa, ma, con grande sorpresa di Sisina, lui non la rimproverò, disse solo: quest’anno, per lei, abbassamento di qualifica. Doveva essere una cosa terribile, perché Nebbia si mise a piangere. Qualche mese dopo, la dolcissima maestra le mise le orecchie d’asino, che teneva nel cassetto per farle fare il giro delle classi. Lei si sentì tremare tutta, si fece ancora più bianca in viso, gli occhi sbarrati. Desiderò scomparire, all’improvviso, e trovarsi tra le braccia di sua nonna. Non riusciva a muoversi e la maestra dovette trascinarla. Nella sua classe, a vederla così, nessuno rise. Rimasero tutti seri, stupiti, anzi, la sua compagna di banco, Mariuccia, si mise a piangere.
Ciuccia, ciuccia, le gridarono tutti i bambini anche quando uscirono dal portone. L’indomani mattina Sisina non volle alzarsi. – A scuola non ci vado più . Non ci fu verso di tirarla giù dal letto, malgrado le mazzate che prese dalla madre, malgrado il padre si sfilasse la currea. Solo la nonna ci riuscì a farla alzare, perché disse: – Vengo io a parlare con la maestra.
Irruppe nell’aula, avevano fatto tardi , si avvicinò alla cattedra e con il dito puntato verso Nebbia, disse, senza urlare ma decisa, con uno sguardo furioso : – Tu a Sisina non la sbocci. Hai capito? Non la sbocci, se no…!
Sisina fu bocciata lo stesso, malgrado fosse molto brava a recitare a memoria le poesie e a fare le quattro operazioni. Quelle maledette parole che non riusciva a leggere!
Per una questione d’onore, la nonna aspettò la maestra all’uscita del vicolo: – T’avevo avvisata. E le fece uno strascino che restò memorabile, in tutto il quartiere.
Teresa frequentava la seconda elementare, quando la maestra Carmelina sempre attenta e sensibile, fu certa di quello che aveva già intuito alla fine della prima classe.
Teresa non riusciva ad imparare a leggere, eppure era una bambina intelligente.
Anche i genitori furono avvisati e la diagnosi definitiva fu fatta da uno specialista, che confermò l’intuizione della maestra.
Ora Teresa frequenta la quinta e sa leggere. La maestra Carmelina è molto contenta, si sente come se lei stessa avesse imparato a leggere una seconda volta, prova entusiasmo e soddisfazione. Ce l’ha fatta! Ce l’hanno fatta! Apre il cassetto della vecchia cattedra messa a nuovo e rivestita di formica, per posare il quaderno in cui ha annotato tutti i progressi di Teresa.
Non ci aveva mai fatto caso prima, ma in fondo trova due pezzi di cartone. Li guarda bene. Sono due orecchie d’asino polverose che non servirono allora e non servono più.