Addio all’imprenditore salernitano Orazio Boccia, patron dell’omonima industria grafica e padre di Vincenzo, presidente di Confindustria dal 2016 al 2020 ed attualmente presidente dell’Università Luiss Guido Carli. Orazio aveva da poco compiuto 90 anni, era infatti nato il 26 novembre del 1932. “Mio padre Vincenzo morì di tetano nel febbraio del ’44”, aveva avuto modo di raccontare in un articolo pubblicato su Civiltà del Lavoro nel 2013. “Degli anni precedenti al ’40 ricordo poco”, aveva aggiunto. Per poi raccontare: “All’epoca della grande depressione, Salerno aveva trentamila abitanti. Nel dopoguerra si sarebbe estesa. Allora era più piccola, oltre che più povera. Secondogenito e unico maschio di cinque figli, fin da piccolo ho imparato l’arte del digiuno. Ricordo che, in famiglia, aspettavamo che papà fosse riuscito a procurarsi di che comprare pasta e olio. Cercavamo di resistere; poi, eravamo sopraffatti dal sonno. Quando papà arrivava, mamma Angelina ci svegliava per mangiare. Mangiavamo mezzo assonnati.
Ma quando Vincenzo Boccia aveva soldi in tasca, sapeva essere generoso. Invitava anche qualche amico bisognoso. Ne chiamava sempre uno in particolare, poverissimo: don Luigi, insieme alla moglie. Organizzava tavolate. O tutto o niente. Gli Americani, già sbarcati in Sicilia, subito dopo l’armistizio erano giunti fino a Paestum. L’operazione Avalanche (valanga) assestò un altro colpo al nemico, costringendolo a riposizionarsi decine di chilometri più indietro. I tedeschi si ritiravano, ma senza rinunciare a portarsi con loro, prigionieri, italiani adulti, dopo l’8 settembre considerati come dei traditori”. Di qui una circostanza dolorosa. “Presero anche mio padre. Feci in tempo a vederlo – raccontava Orazio Boccia -, spintonato da un militare corpulento ma di bassa statura, raggiungere l’autocarro per ammassarsi con gli altri. Pensai che per tutti loro non ci sarebbe stato più ritorno. Ma papà era un uomo pieno di energia, capace di reggere pesi da un quintale. Non si arrendeva facilmente, non lo fece nemmeno in quell’occasione. Il giorno dopo riuscì a fuggire assieme ad altri dal campo di Avellino dove era stato temporaneamente destinato, per essere poi condotto in un lager tedesco. Si era fatto strada attraverso il reticolato arrugginito con cui i militari tedeschi avevano recintato il campo. Ci raggiunse e si nascose in una botte grande alta come un uomo. Ricordo quei momenti come fossero ieri. I tedeschi che cercavano gli evasi, la perquisizione che giunse fino alla cantina. Un soldato si appoggiò con la mano alla botte dove si era nascosto papà. Se ne andarono. Papà, scappando, si era ferito a una mano, ma non ci aveva badato più di tanto. Di qui l’infezione, il tetano”. Una malattia che gli fu letale. “Poco prima di lasciarci si raccomandò: ora sei tu l’unico maschio, il capofamiglia! Fu seppellito nella fossa comune”.