È così che Giordano Bruno, il frate-filosofo di Nola che con le sue opinioni aveva osato sfidare la Chiesa, accolse la condanna a morte inflittagli dal tribunale dell’Inquisizione. Pochi giorni dopo il tragico verdetto, il 17 febbraio 1600, quel pensatore “libero e ostinato” sarebbe stato condotto al rogo in Campo de’ Fiori, a Roma. Proprio là dove oggi sorge il monumento in sua memoria, che lo ritrae imponente e fiero, con lo sguardo cupo rivolto al Vaticano.
Il 17 febbraio è una data importante per chi è incessantemente impegnato a combattere in ogni momento gli integralismi, l’imposizione di dogmi e di copyright divini, il prevalere del pensiero unico, i tentativi di ridurre a soggezione individuale e sociale gli essere umani. Una data che si identifica con Giordano Bruno, che il 17 febbraio del 1600 venne messo sul rogo per eresia a Roma in piazza Campo dè Fiori, ma una data che celebra anche la conquista dei diritti civili da parte dei valdesi – e successivamente degli ebrei – con l’emanazione nel 1848 delle Regiae Patenti di Carlo Alberto.
Giovane dall’animo irrequieto, fu investito dalla prima denuncia quando era ancora novizio, reo di aver tolto dalla propria cella le immagini dei santi. Più avanti, nel 1576, un confratello lo accusò di eresia per aver espresso dei dubbi sulla dottrina della Trinità. «L’accusa era difficile da provare, ma in un eventuale processo si sarebbe sommata alla precedente denuncia, che rimarcava il poco rispetto che Bruno aveva del culto dei santi», racconta Anna Foa, docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma e autrice del saggio Giordano Bruno (il Mulino).
VAGABONDO. Il rischio di una condanna era dunque consistente, e così Bruno lasciò Napoli riparando a Roma. Dovette però fuggire anche da lì, perché fu accusato ingiustamente dell’omicidio di un frate. Iniziò quindi un periodo di peregrinazioni in tutta Europa, dove, spogliatosi degli abiti domenicani, vagabondò di città in città avvicinandosi a ogni confessione cristiana, desideroso di allargare i propri orizzonti di studio e le proprie riflessioni filosofiche. A Ginevra aderì al calvinismo, in Germania entrò in contatto con i luterani e in Inghilterra con gli anglicani, distinguendosi tra l’altro per una serie di lezioni poco gradite sulla teoria eliocentrica di Copernico, di cui era sostenitore.
Questa e altre sue convinzioni irritarono le varie gerarchie ecclesiastiche e Bruno si ritrovò così scomunicato praticamente da tutte le Chiese cristiane europee, cattoliche o riformate che fossero. Con questo curriculum, nel 1592 fece ritorno in Italia.
L’INIZIO DEL CALVARIO. Nel marzo 1592 si stabilì a Venezia, chiamato da tal Giovanni Mocenigo, un nobile ansioso di apprenderne le cosiddette “arti magiche” e in particolare la mnemotecnica, un efficace metodo di memorizzazione che lo stesso Bruno aveva ideato, rimarcando però come tale tecnica derivasse “non dalla magia, ma dalla scienza“. Ma quel soggiorno veneziano fu l’inizio della sua fine. Quando infatti il filosofo riferì l’intenzione di riprendere i suoi viaggi, Mocenigo, irritato, corse a denunciarlo per eresia. Risultato: Bruno fu arrestato la sera del 23 maggio 1592, e tre giorni dopo mandato a processo.
PROCESSO SOMMARIO. Ma quali erano i capi d’accusa? Mocenigo aveva sostenuto, tra le altre cose, che Bruno fosse una specie di stregone, che non credesse nella verginità di Maria, che fosse un lussurioso e che volesse fondare una nuova setta. Dalle accuse emerse poi uno degli elementi centrali del pensiero di Bruno: la presenza di un universo infinito e di infiniti mondi, idea inaccettabile per l’epoca, che andava persino oltre la teoria copernicana. «Le accuse, per quanto gravi, provenivano tuttavia dal solo Mocenigo ed erano piuttosto confuse, motivo per cui il processo veneziano poteva anche finire con un’assoluzione o una condanna lieve», spiega l’esperta.
A quel punto giunse però una richiesta di estradizione da Roma, dove Bruno fu trasferito il 27 febbraio 1593. Alle accuse del Mocenigo si erano intanto aggiunte quelle di fra’ Celestino da Verona, che con Bruno aveva condiviso la detenzione veneziana. «I nuovi capi d’accusa, simili a quelli del Mocenigo, furono avallati da altri quattro compagni di cella di Bruno, e alla fine emerse l’immagine distorta di un uomo senza religione, pronto a burlarsi di ogni credenza», continua la storica.
GIUDIZIO ROMANO. Della fase romana del processo non è sopravvissuto alcun verbale, ma esiste un Sommario compilato tra il 1597 e il 1598. Questo documento, basato sugli atti veneziani e su quelli romani, è stato scoperto nel 1940 e reso pubblico solo pochi decenni fa. Quel che sappiamo è che il tribunale raccolse un totale di 31 capi d’imputazione, che ricoprivano praticamente ogni aspetto della vita di Bruno, dalla sua condotta morale, alle credenze teologiche e filosofiche. L’iter processuale si protrasse in ogni caso per anni, tra interrogatori, sospensioni e, forse, un episodio di tortura nel 1597.
La posizione dell’imputato si fece sempre più seria, e il 21 dicembre 1599, nell’ultimo interrogatorio, dichiarò di non aver nulla da ritrattare. In sostanza, Bruno rigettò l’accusa di eresia in quanto non si considerava un teologo, bensì un filosofo che andava, semplicemente, alla ricerca della verità. Ma agli occhi della Chiesa, negando l’abiura, confermava di essere un “eretico impenitente, pertinace e ostinato“, come recitava la sentenza di condanna espressa l’8 febbraio 1600. Il 17 dello stesso mese, quel pensatore fuori dal comune fu zittito per sempre, avvolto dalle fiamme.
ANTICIPATORE. L’impatto di Giordano Bruno sulle posizioni della Chiesa, specie in ambito scientifico, fu sconvolgente, ma tuttora la Santa Sede, pur avendo espresso “profondo rammarico” per la sua morte, non ne ha riabilitato il pensiero. Eppure Giordano Bruno, figlio di un’era ancora “prescientifica” (ossia precedente l’introduzione del metodo sperimentale di Galileo Galilei), è stato capace di intuizioni straordinarie.