La notte fra il 23 e il 24 febbraio di un anno fa, quando il mondo ha saputo che sì, la Russia di Vladimir Putin aveva davvero scatenato un’invasione vecchia maniera su larga scala in Ucraina, è morto ciò che restava del sogno – o del miraggio – dei cantori della fine della storia.
Qualcosa che l’immaginario collettivo mainstream dell’Occidente aveva sotterrato fra le vaghe memorie degli incubi degli anni ’50 e ’60 del XX secolo almeno a partire dalla stagione suggellata dai proclami di vittoria per l’epilogo della Guerra Fredda all’ombra dell’ammainabandiera sovietico. Epilogo scambiato da molti per una vittoria militare vera, rivendicato come la pretesa di un che di definitivo. Ma in realtà mai consolidato in nulla di condiviso fra i vincitori dichiarati e i presunti sconfitti. E in fin dei conti foriero di malintesi pericolosi. In un quadro di sentimenti assai diversi fra ovest ed est del mondo (intesi come spazi sia geografici sia culturali o di mentalità) dinanzi ai progetti di “nuovo ordine mondiale democratico”: evocati dagli uni con le semplificazioni di un autocompiacimento baldanzoso; dagli altri tra recriminazioni, frustrazione, regressioni autoritarie, sospetti a tratti ossessivi. Un panorama di cui oggi restano le scorie, innaffiate dal sangue dei campi di battaglia dell’Ucraina in un panorama che fa sfumare in secondo piano persino gli incubi freschissimi dell’epocale pandemia planetaria da Covid. E le macerie di troppe illusioni.
In Occidente le illusioni alimentate dalla convinzione che la Guerra Fredda potesse essere archiviata ancora una volta come una “war to end all wars”, secondo l’infausta retorica wilsoniana (ripresa da H.G. Wells e tragico inganno del primo conflitto mondiale): “una guerra per mettere fine a tutte le guerre” destinata a partorire come per volere del fato la pace sotto dettatura della democrazia liberale. In Oriente quelle di chi, come Putin, logorato da quasi 25 anni di potere autocratico, ha scommesso infine tutto su un preteso diritto di regolare al dunque i conti geopolitici a costo di sfidare alla fondamenta i principi della legge internazionale; aggrappandosi magari al wishful thinking di riuscire a far implodere le contraddizioni interne ad un asse Usa-Europa che per ora si è semmai compattato.
La storia, in ogni caso, sembra aver girato pagina di nuovo. E solo il tempo potrà dire se verso qualcosa di meno peggio dei sinistri scenari odierni dopo una lunga parentesi di violenza, o verso un terrificante buco nero. Nell’attesa, a pagare il prezzo più alto continuano a essere gli ucraini: protagonisti nei loro confini d’una resistenza coraggiosa in questi mesi, superiore alle aspettative di Mosca e non solo; ma al contempo pedine d’una partita a scacchi (se non ancora d’uno scontro diretto) che li sovrasta in dimensione globale.
La sintesi di quest’anno 1 è una trama di lacrime e sangue, di bombardamenti e mobilitazioni, di denunce di crimini bellici efferati e bollettini di propaganda inevitabili in un contesto di guerra nel quale – come è arcinoto – prima vittima è sempre la verità: macinata dalla macchina della propaganda degli aggressori, e qualche volta pure dagli aggrediti, tra disinformazione, istinto di sopravvivenza, pressione sulla trincea interna, tentativi di condizionamenti incrociati con Paesi amici. Una trama disegnata nelle prime settimane dall’azzardo di un’invasione su più fronti; poi dall’avanzata russa fermata alle porte di Kiev (e macchiata fin da subito, fallimento o diversione che fosse, da brutali atti di ferocia come a Bucha); dalla presa di Mariupol fra le devastazioni dell’Azovstal; dalla sorprendente controffensiva ucraina a Kherson; dall’escalation missilistica del generale Surovikin su infrastrutture strategiche anche civili; dalla parallela escalation degli aiuti militari degli alleati Nato alle forze del presidente Volodymyr Zelensky; e dalla transizione da una strategia militare in parte di manovra a una guerra di attrito inesorabile (nelle intenzioni di Mosca) come 80 o 100 anni fa.