La città di Nuceria, terra operosa e ricca, durante il I secolo d.C. oltre a un’intensa produzione agricola, soprattutto per i suoi vini generosi, per manufatti di bronzo, terracotta e vetro, o per generi alimentari, si caratterizzava anche per l’industria della lavorazione di pietre e per l’attività venaliciaria. Per oltre quattro secoli (dalla seconda metà del II secolo a.C. al III secolo d.C.) l’industria della lavorazione di pietre fu l’attività produttiva più importante della città. Nuceria, infatti, possedeva un fiorente distretto industriale della lavorazione di pietre: un travertino di colore biancastro (tendente al giallo dopo una lunga esposizione agli agenti atmosferici), ricco di inclusi vegetali mineralizzati (il calcare di Sarno) e un tufo di colore grigio-bruno (il tufo grigio di Nuceria). Il tufo grigio della tufara di Fiano (una località nei pressi di Nuceria) era considerato il migliore per la sua resistenza. Il suo spessore poteva raggiungere le decine di metri per questo era impiegato in edilizia soprattutto per la costruzione di muri portanti. La lavorazione di queste pietre iniziò il suo sviluppo nel commercio al dettaglio durante il I secolo a.C. in seguito alla massiccia importazione a Roma di oggetti di lusso in bronzo e in marmo. Questi prodotti erano destinati alla ricca committenza romana per abbellire le loro sontuose dimore. Tale tendenza contagiò tutta la società romana a tal punto che per i meno facoltosi si iniziò a produrre oggetti d’imitazione. L’industria marmorea, dunque, cominciò la sua attività con l’imitazione delle forme e delle iconografie dei prodotti importati, di maggior livello qualitativo, per merito di botteghe locali, che si rivolgevano a un mercato più economico. La manifestazione più evidente di questo fenomeno era l’imitazione dei sarcofagi “attici” da parte di officine specializzate locali; ma lo stesso processo imitativo doveva interessare anche altri settori tra cui quello degli arredi domestici in marmo.
Questo settore minore aveva una struttura meno centralizzata, con prodotti spesso eseguiti nelle vicinanze delle cave e distribuiti solo nelle aree limitrofe. Alcuni di questi supporti d’imitazione erano di notevole qualità e costituivano un’alternativa meno costosa alla produzione marmorea d’importazione. Questi manufatti erano scolpiti in pietra calcarea che proveniva dalle cave situate alla periferia di Nuceria. Il lavoro in queste grandi cave iniziava ogni giorno alle prime luci dell’alba e la maggior parte della mano d’opera che si apprestava a compiere questa dura attività era costituita da prigionieri di guerra divenuti schiavi. Infatti, con le guerre di espansione in età repubblicana e nel periodo imperiale, il bottino di guerra, o praeda bellica, dell’esercito romano era costituito dalle ricchezze prese al nemico che si componevano di beni immobili e mobili, cioè di persone e di cose. La vendita pubblica del bottino di guerra, e in modo particolare dei prigionieri di guerra come schiavi, consentiva di realizzare ingenti guadagni. La vendita pubblica dei prigionieri di guerra avveniva mediante la venditio sub corona. Si trattava probabilmente di una vendita all’incanto, le cui norme appaiono del tutto sconosciute e quel poco che si conosce è deducibile soltanto da fonti di età imperiale. Secondo il giurista romano Celio Sabino, anticamente, i prigionieri di guerra catturati al nemico, andavano in vendita con una corona sul capo e, pertanto, si diceva che erano venduti sub corona. Nella venditio sub corona si comprava in blocco un gran numero di schiavi che in seguito erano rivenduti al dettaglio nei mercati specializzati del bacino del Mediterraneo. Per quanto visibilmente costretti in catene o vincolati dal venalicius funis, gli schiavi erano segnalati con tatuaggi oppure marchiati, e gli schiavi trasportati via mare, erano detti genericamente transmarini, facilmente individuabili per i piedi sbiancati da una polvere utilizzata anche per argentare, detta creta argentaria. Una volta esposti al pubblico per la vendita tutti gli schiavi dovevano ostentare il proprio titulus, cioè i rispettivi requisiti annotati su un cartello e tra i contrassegni della condizione sociale di ogni schiavo una menzione a parte meritano i collaria: anelli o catene, con pendaglio o meno, più spesso di metallo, ma anche di cuoio, d’appendere al collo dello schiavo, contenenti informazioni a suo riguardo. La vendita sub corona, dunque, rappresentava, per esprimere il concetto con un linguaggio attuale, una “vendita all’ingrosso” di homines. Il commercio di schiavi era esercitato da “loschi individui” i quali realizzavano ingenti guadagni dalla compravendita di schiavi, e nella lingua latina, il termine di uso più comune per definire il mercante di schiavi era venaliciarius. Dalle fonti giuridiche si apprende che i venaliciarii svolgevano la loro attività commerciale utilizzando schemi organizzativi abbastanza complessi. Una grossa impresa venaliciaria, infatti, poteva avere mezzi di trasporto di vario tipo, navi incluse, e un apparato di uomini i cui compiti potevano essere di vario genere e avere diversa importanza: dalle mansioni di sorveglianza e custodia della “merce umana”; a quelle più complesse svolte da incaricati dei venaliciarii, che agivano in loro assenza tramite mandato. I giuristi romani, inoltre, riferiscono che i venaliciarii erano soliti riunirsi in società. La costituzione di una societas consentiva ai venaliciarii socii di agire simultaneamente in diversi mercati e di ripartire pro quota gli eventuali rischi e responsabilità derivanti dall’esercizio della loro attività. La conferma che l’attività venaliciaria era praticata in modo stabile a Nuceria, ci è pervenuta mediante una tavoletta cerata (CIL IV 3340, 45) del famoso banchiere di Pompei Cecilio Giocondo. Dopo un’attenta lettura del testo si evince che il documento fu redatto il 27 agosto del 56 d.C. a Nuceria e si riferisce a una auctio venaliciaria, cioè una vendita di schiavi da parte di P.Alfeno Varo e P. Alfeno Pollio che non solo erano originari di Nuceria, ma che appartenevano all’élite cittadina. Nel documento, come al solito, non vi è alcun accenno del compratore e che l’azienda venaliciaria fu venduta per ben 25.439 sesterzi.
Chi erano, dunque, Alfeno Varo e Alfeno Pollio? Alfeno Varo era un trecenarius Augusti, questo titolo non indicherebbe uno specifico posto, ma il rango di chi era passato attraverso i tre gradi del centurionato della guarnigione di Roma (vig., urb., praet.). Mentre Alfeno Pollio era un membro del Senato municipale di Nuceria. Alfeno Varo e il suo probabile fratello (o un suo stretto parente) Alfeno Pollio, fino alla metà del 50 d.C. svolgevano anche una normale attività venaliciaria a Nuceria, e se di Alfeno Pollio, dopo aver venduto l’azienda, si perdono le sue tracce, non è così per Alfeno Varo. Infatti, lo ritroviamo in azione nell’aprile del 69 d.C. come praefectus castrorum del generale vitelliano Fabio Valente, che presso Ticinum Varus salvò con un abile espediente durante una sommossa militare: “In mezzo a queste feroci proteste, Valente, mandando i littori, cercava di riprendere il controllo della situazione. Ma è lui a essere aggredito, a essere preso a sassate, messo in fuga e inseguito. (…) Allora Alfeno Varo, prefetto degli accampamenti, mentre il fronte dei rivoltosi si sfaldava poco a poco, ricorre a questo espediente: vieta ai centurioni di fare la ronda e ai trombettieri di suonare la tromba per chiamare i soldati ai loro compiti. Tutti ne furono come paralizzati; e poi man mano sospettosi, attoniti e infine spaventati che non ci fosse più nessuno a comandare. Prima silenziosi e sottomessi, poi addirittura con preghiere e lacrime chiedevano perdono. Quando riapparve Valente, sfigurato, in lacrime ma insperatamente incolume, i soldati provarono insieme gioia, pietà, entusiasmo” (Tacito, Storie, 2, 29). Si distinse, in seguito, nella decisiva battaglia di Bedriacum contro gli Otoniani: “Per caso, tra il Po e la strada, vennero allo scontro due legioni su un terreno sgombro: la ventunesima, detta Rapace e insigne per antica gloria, dalla parte di Vitellio; la prima, detta Adiutrice, mai sperimentata prima in battaglia, ma fierissima e avida di gloria, dalla parte di Otone. (…) Si aggiunse un nuovo aiuto. Varo Alfeno, assieme ai Batavi, aveva ormai annientato la schiera dei gladiatori, sterminandola completamente con le coorti schierate frontalmente, mentre tentava di ripassare il fiume con le navi, lì proprio sulle rive. Forte di questo successo, aveva aggredito i nemici sul fianco” (Tacito, op. cit., 2, 43). Inoltre, e questo è l’elemento più rilevante, Alfeno Varo negli ultimi giorni di ottobre del 69 d.C. fu nominato dall’imperatore Aulo Vitellio praefectus praetorio in sostituzione del destituito Publilio Sabino: “Fa mettere in prigione Publilio Sabino, colpevole di essere amico di Cecina, e lo sostituisce con Alfeno Varo” (Tacito, op. cit., 3, 36). Dopo la sconfitta di Cremona, Vitellio lo incaricò con l’altro prefetto Giulio Prisco di bloccare l’Appennino per arrestare i Flaviani (Tacito, op. cit., 3, 55), ma senza successo e anzi col sospetto del tradimento e della viltà (Tacito, op. cit., 3, 61) e per questo motivo bollato da Tacito perché non seppe riscattarsi come il suo collega con il suicidio: “Giulio Prisco, prefetto delle coorti pretoriane sotto Vitellio, si suicidò, più per vergogna personale che per costrizione. Alfeno Varo invece sopravvisse alla sua infamia e alla sua vigliaccheria” (Tacito, op. cit., 4, 11). Per un approfondimento del testo epigrafico si rimanda al lavoro di Mario Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1954, pp. 110 ss.