Nella terra per decenni in mano alla camorra, Giuseppe Cimarosa, 40enne figlio di una cugina diretta del capomafia Matteo Messina Denaro, parla della sua storia di coraggio e determinazione nel restare dalla parte della legalità contro tutto e tutti, la famiglia, i compaesani, sfidando l’isolamento, gli sguardi e i commenti più cattivi ogni giorno a Castelvetrano, altra terra di mafia. Rinunciando inoltre alla “sicurezza” della scorta.
“Il boss non l’ho mai visto eppure la sua presenza è stata ‘tanto vicina’ da guastarmi la vita” dice Cimarosa, che vive ancora a pochi passi da dove il boss è stato stanato. Un racconto reso al convegno “Coraggio, gente!” organizzato in vista del 29esimo anniversario dell’omicidio di Don Peppe Diana in un luogo simbolo del riscatto dalla camorra, Casa Don Diana, bene confiscato dove ha sede il comitato che prende il nome dal sacerdote, e dove sono affisse le foto di tutte le vittime innocenti della criminalità organizzata; un convegno che ha fatto incontrare due testimonianze civili, quella di Cimarosa e di Augusto Di Meo, presente quando Don Diana fu ucciso ma mai riconosciuto come testimone di giustizia. Due testimonianze per lanciare il messaggio che “si può andare avanti anche in società mafiose”. “Anzi si deve andare avanti” dice Cimarosa, che vive con la madre e la nonna, “due vere eroine su cui andrebbero fatti i film, mentre in tv vedo solo programmi, penso a Gomorra e Rosi Abbate, che mitizzano i boss, che andrebbero ridicolizzati. Tali programmi andrebbero vietati”. “Mia nonna e mia zia sono vere eroine, perché hanno rotto consuetudini e modi di pensare radicati, a differenza delle quattro sorelle di Messina Denaro, donne di mafia, penso a Rosetta arrestata pochi giorni fa, piu spietate dei mafiosi”.
Il papà di Giuseppe, morto di cancro, fu arrestato due volte e divenne collaboratore di giustizia, facendo arrestare una delle quattro sorelle del boss, ma anche il fratello della moglie, Giovanni Filardo, fedelissimo del capo. “Per l’arresto di mio zio – racconta Giuseppe – mio padre fino all’ultimo si è scusato con mia nonna, ma lei gli ha sempre detto di non sentirsi in colpa. Mia nonna è stata ‘cancellata’ dagli altri figli, così come mia madre da fratelli e cugini con cui erano cresciuti. Perciò sono loro la vera mia forza”. Quando il papà divenne collaboratore, per Giuseppe, che gestisce un maneggio, e il fratello Michele, iniziarono le minacce, il vero e proprio “voltafaccia” di tutti.
“Nessuno veniva più al mio maneggio, mio fratello non riusciva a trovare lavoro, poi alla fine lui ha ceduto e se n’è andato al Nord dove ha moglie e figli. Io sono rimasto, ho denunciato le intimidazioni, dalle intercettazioni è emerso che tanto alcuni consiglieri comunali si auguravano la mia morte così come i mafiosi volevano darmela. Eppure Messina Denaro non ha mai dato l’ordine, ma poi ho capito perché: era latitante a pochi passi da noi e non serviva alzare un polverone uccidendomi, tanto ci stavano già pensando i concittadini a fare terra bruciata attorno a noi”. Cimarosa denuncia anche di essere “vittima” della legislazione antimafia, visto che a causa del padre ha subito la confisca di prevenzione dell’abitazione in cui vive e da un anno e mezzo pesa su di lui un’ordinanza di sgombero. “Ma non lascio la casa, stiamo vedendo con gli avvocati come risolvere, ma lo Stato dovrebbe intervenire modificando la legge e comunque distinguendo caso per caso”. Tra gli aneddoti raccontati da Cimarosa la visita fatta ad otto anni con padre, madre e nonno a casa di Rosetta Messina Denaro per l’arresto del marito Filippo Guttadauro (padre di Lorenza, avvocato del boss), in cui iniziò a prendere coscienza della “mafiosità” della sua famiglia. “Rosetta era davanti al camino e neanche si girò per salutarci, quindi le altre due sorelle Bice e Patrizia presero mia madre, considerata già allora la ‘strana della famiglia’ perché lavorava come infermiera, aveva sposato l’uomo che amava e aveva denunciato la padrona di casa ai carabinieri tanto da essere chiamata ‘femmina di caserma’; le sorelle del boss, che invece erano state date in sposa ai mafiosi di altre province, la portarono fuori e le dissero di non farsi più vedere. Questo fu il primo choc, poi il secondo a 15 anni quando mio padre fu arrestato; allora iniziai a nascondere la mia identità. Altro choc fu quando vidi il film “I Cento Passi” sulla storia di Peppino Impastato, perchè capii che non ero solo”.
“Cultura mafiosa è anche l’arroganza di sentirsi dalla parte del giusto; dalle ultime intercettazioni emerge che Messina Denaro si crede il salvatore della Sicilia. Ma ha solo rovinato la nostra terra; il suo arresto non basta, perché vanno arrestati i colletti bianchi, ovvero i professionisti che lo hanno aiutato”. Al convegno ha preso parte anche Antonio D’Amato, magistrato ex Csm che tornerà come procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere.