” La malattia mi ha tolto spensieratezza ma mi ha dato consapevolezza Sono nata prematura di un mese e avevo ritardi nella crescita. L’esordio della malattia è avvenuto intorno ai 10 anni non riuscivo a mangiare, la mia mamma pensava fossi anoressica. Sono stata in una clinica a Milano che segue malattia renali nei bambini. La mia malattia è la nefronoftisi molto rara e abbiamo scoperto essere una malattia genetica. I medici tenevano il mio peso stabile, ho sperimentato quella che è LA PRIVAZIONE DELLA PROPRIA VOLONTA’. Non avevo il controllo sul mio corpo, non potevo mangiare determinati cibi, ancora oggi non sono completamente libera, potrei quasi dire che è il cibo ad avere il controllo su di me. Quando ero solo una ragazzina, dovevo limitare le proteine, non potevo mangiare determinati cibi. Per questo motivo seguivo un alimentazione aproteica. Gli snack erano orribili invidiavo gli altri bambini che potevano mangiare tutto. Non sono mai stata definita anoressica, nonostante all’epoca avessi 16 anni, pesassi 37 kg e fossi alta 1.52. Crescendo non mi sono mai identificata con il mio corpo e vedevo la differenza tra me e gli altri bambini, inoltre, avevo difficoltà nell’approcciarmi agli adolescenti per non parlare dei gruppi dove mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Mi sono sempre sentita esclusa, in colpa e mi vergognavo perché non mi sentivo come gli altri. Mi sentivo anche inferiore rispetto a chi mi guardava e inevitabilmente mi procurava imbarazzo. Non avevo migliori amiche o fidanzatini, perché quando raccontavo quello che vivevo i miei coetanei erano spaventati e si allontanavano. Quindi tenevo la mia malattia come un piccolo segreto in uno scrigno perché avevo paura che mi lasciassero anche prima di unirci. Durante la dialisi il mio corpo era segnato, le cicatrici erano fuori e dentro di me. Cercavo di coprirmi perché mi vergognavo e i segni purtroppo erano evidenti anche sotto la maglietta. Avevo difficoltà nel relazionarmi perché mi sentivo diversa, avevo bisogno di aiuto ma non riuscivo a chiederlo perché non volevo sentirmi un peso più di quanto già non mi sentissi ingombrante. Dopo lo sviluppo era necessaria la dialisi per poter vivere, questo mi portava a vedere la malattia come uno scoglio che mi ha limitato a livello della alimentazione ma anche a livello sociale e relazionale. Ero tanto stanca, non riuscivo ad interagire con gli altri, evitavo di uscire con i miei amici. Crescendo e dopo il trapianto ho capito che la persona che sono ora è il risultato di quel periodo di sofferenza.
Ma non è stato affatto semplice quando ho saputo che dovevo fare la dialisi sono scappata, l’idea di vivere grazie ad una macchina per me era un grande limite. A casa si cercava di non farmi pesare questa cosa, io non mostravo il mio malessere perché vedevo la sofferenza dei miei genitori, ho interiorizzato il dolore. Non c’era nessuno disposto ad andare oltre la mia malattia, i miei genitori erano spaventati, preoccupati. Io ho sempre somatizzato tutto, ho passato un periodo di mutismo selettivo, durante la dialisi. In casa vivevo con il sorriso fisso sulle labbra per non far preoccupare i miei, ma dentro stavo male e in un periodo mi sono chiusa nel mio silenzio. Non ho avuto nessuno che mi accogliesse a livello psicologico. Non mi sono sentita ascoltata nel mio silenzio. Nonostante tutto, la dialisi mi permetteva di essere un pochino più libera. Con gli anni dell’abbuffata ero arrivata a pesare 55kg e a dirla tutta abbuffarmi non era poi cosi male rappresentava una valvola di sfogo e sicuramente era liberatorio. Ora ho la consapevolezza che questo sia un disturbo. Se compro qualcosa non so trattenermi, non so darmi un limite. Come risultato della privazione e della restrizione. Non avendo la libertà di scegliere e decidere quanto mangiare, come conseguenza non riesco a fermarmi. Ho un disturbo che mi porta a vomitare quando mangio troppo, forse è una sorta di bulimia. In passato in momenti di stress mi è capitato di vomitare tutti i giorni. Il mio peso prima della gravidanza si aggirava intorno ai 46-47 kg, dopo la gravidanza sono arrivata ai 52 kg. Sono ancora legata a quella piccola grande donna che custodisco gelosamente dentro me e sono ancora avvolta dal trauma che la malattia mi ha portato ma lo guardo con occhi diversi. Adesso ho 37 anni e pensando a quel periodo, provo tenerezza per quella ragazzina fragile, la sento con me. La terapia mi ha aiutata a vedermi in pace nel passato, che ha modificato il mio essere. Non sento la ragazzina che ero sofferente come se fosse stata riconosciuta. Prima provavo rabbia e dolore, con la terapia ho superato queste emozioni negative.
Quindi vedo la malattia non come uno scoglio ma come un’opportunità e un’ancora di salvezza. La malattia mi ha tolto la semplicità e la spensieratezza di quelli che dovrebbero essere gli anni più belli ma mi ha dato tanta consapevolezza di quanto la diversità rappresenti semplicemente l’unicità di una persona. Ora sono una persona diversa, non vivo con la paura e con la mancanza di fiato per il cibo, mi accolgo nel mangiare e nel vivere da donna libera. Faccio attenzione alle parole che uso perché ho sviluppato una sensibilità diversa e cerco di non usare parole che possano ferire gli altri. Non etichettiamo il corpo e abbiamo una visione diversa rispetto agli altri, costa fatica a noi e alle persone che ci circondano. Abbracciate il rispetto in ogni sua forma. La diversità è unicità. Se avessi di fronte un ragazzo o una ragazza che stanno attraversando la mia stessa tempesta, gli direi di dare voce a quello che sente, di non vedere la terapia come qualcosa di negativo. Di farsi aiutare e seguire da un terapeuta. Sicuramente lo/la accoglierei e ascolterei. Agli adulti, chiederei di non giudicare, perché spesso mi sono sentita giudicata con le parole e con gli sguardi. Ad un genitore gli direi di non aver paura di ascoltare il proprio figlio. Da genitore vedere la sofferenza di un figlio può far tremare corde dentro che rimandano al passato, penso che per un genitore sia difficile vedere un figlio che soffre. Quindi la paura di non ascoltare è data dalla sofferenza e non dalla mancanza d’amore. Andate oltre tutto questo e abbracciate i vostri figli, con il corpo, il cuore e con la mente.”