L’enciclica è il primo riconoscimento formale dei diritti umani, ma lo fa attraverso una prospettiva cristiana. Non c’è spazio per i cosiddetti “nuovi diritti”, perché i diritti di cui parla l’enciclica sono radicati nel cuore dell’uomo, ma c’è invece necessità di portare avanti i diritti della persona umana, perché questa possa svilupparsi davvero in maniera “integrale”.

Tra questi diritti, c’è quello della “libertà della ricerca del vero, della manifestazione del pensiero e nella sua diffusione”, il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza, il diritto al culto di Dio privato e pubblico. È la questione della libertà religiosa, legata indissolubilmente alla libertà di coscienza (e il tema dell’obiezione di coscienza è fondamentale).

E poi, la Pacem In Terris sottolinea anche la necessità di una riforma delle Nazioni Unite, perché “arrivi un giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone”.

Ovviamente, l’enciclica parla del disarmo, della predominanza del negoziato sulla guerra, della necessità di andare oltre gli equilibri instabili che prevedono una applicazione della legge del più forte. E il riferimento era, ovviamente, alla corsa agli armamenti, ma potrebbe benissimo essere applicato ancora oggi.

Ma c’è anche un passo dell’enciclica in cui si affronta il tema delle minoranze etniche all’interno dei grandi Stati nazione su cui si era stabilito il nuovo ordine mondiale dopo la Prima Guerra Mondiale. Ed era un richiamo sia agli Stati, che dovevano permettere il pieno sviluppo, anche economico e sociale delle minoranze, che alle minoranze, chiamate a non enfatizzare l’appartenenza etnica per ragioni personali o di interesse.