Non avevo mai sentito parlare di Carlo Cafiero, quando un giorno, il traffico del mattino mi costrinse a rallentare. Il mio sguardo si soffermò sul nome di una stradina che costeggiava l’ex manicomio della mia città: Via Carlo Cafiero, appunto. Nella solitudine mattutina di un lavoratore in ritardo, mi chiesi chi potesse essere stato quell’uomo e cosa avesse mai fatto di interessante, per aver meritato di dare un nome e proprio a quella strada. Solo qualche tempo più tardi, quella estemporanea domanda trovò una risposta. In una libreria del centro dove mi recai per l’acquisto di un libro, per caso sfilai da uno scaffale ciò che apparteneva proprio a Carlo Cafiero: il primo compendio in lingua italiana del capitale.
Quella che interpretai come una felice coincidenza, mi procurò un certo stupore quando lessi un po’ della vita dell’autore: nato a Barletta da un proprietario terriero, conobbe Marx , Engels, etc etc. Ciò che più mi sconvolse, però, fu scoprire che il luogo della sua morte non fu Parigi o Londra, ma il manicomio di Nocera, per la precisione di Materdomini a Nocera Superiore. Io adoro la mia città, precisiamo subito, ma per un personaggio dello spessore intellettuale di Carlo Cafiero, finire i suoi giorni nel manicomio di Nocera Inferire non sarà stato certo il massimo. Conosco bene quel luogo, purtroppo, e non perché ci sia stato internato (naturalmente!) ma perché da ragazzo quando si faceva sega a scuola, spesso percorrevamo un binario morto della ferrovia che dava dietro al manicomio e, da un punto sopraelevato rispetto alla struttura, guardavamo i “pazzi”. Cafiero si aggirava lungo il perimetro della gabbia di cemento che lo conteneva e le giornate le passava girovagando per i sentieri più bui della sua mente. Aveva sempre le mani nere e, di conseguenza, la faccia nera. Da qui, il soprannome Carbonella. Le mura di cemento che lo avevano imprigionato sembravano enormi fogli di carta sui quali scriveva il suo perenne trattato. Capelli a spazzola, giacca ciancicata, scarpe grosse che strusciava sull’asfalto perché troppo larghe da poter essere calzate perfettamente. Era esile e curvo. Si muoveva a scatti come gli animali selvatici, attento ad ascoltare i rumori più profondi, quasi impercettibili, di quelle mura impregnate d’urla e fetore d’anime smarrite. Di lui nessuno sapeva nulla, tranne quelle scritte che parlavano di cose che nessuno capiva. Parole senza senso, si diceva, e se gli chiedevano spiegazioni, le risposte erano incomprensibili, senza senso, appunto. Da quanto Carbonella scrivesse sui muri, qualcuno lo sapeva: fu dalla morte dell’ingordo. Era nato a Barletta e d’importante nella vita aveva scritto il primo compendio in lingua italiana de Il Capitale, opera filosofica di Karl Marx. Carbonella morì nel manicomio mentre uno scaltro e improvvisato imbianchino copriva con la vernice le sue scritte, eseguendo alla perfezione gli ordini autorevoli del direttore di quella gabbia. “Per fare pulizia” sosteneva, che evidentemente fa rima con pazzia. Quel pomeriggio il sole tramontò, più lentamente del solito, su quella gabbia chiamata Pazzaria dalle persone del posto. Ai loro occhi, troppo spesso, appariva come un luogo di perdizione a causa delle intemperanze degli ospiti che, lì, erano stati stoccati e imprigionati in un tempo senza tempo. Quel pomeriggio, ancora una volta, il sole si sforzò di allungare il suo raggio migliore su quell’enorme foglio impossibile da ripiegare, per illuminare l’ultima frase dell’uomo con le mani e la faccia nera.Quella volta, però, Carbonella disegnò lettere acuminate che liberarono urla e ataviche voci senza volto, dissolvendosi nell’aria come vapore. Con una mano cercò di stendere il muro; con l’altra estrasse dalla tasca un pezzo di carbone, ne leccò la punta, lo conficcò nell’intonaco, come la lama di un coltello che con odio affonda in un ventre maledetto. Quel pomeriggio, con una frase di senso compiuto, il sole se lo portò congedandolo dal mondo.“La mia mente, il confine ultimo di un pensiero libero, il vostro mondo, una falsa comoda congettura”.
Da quando i manicomi sono stati chiusi, o forse è meglio dire aperti (non credete?) quella enorme struttura è stata trasformata dalla ASL di appartenenza in uffici amministrativi e sede di alcuni dipartimenti ad essa collegati. Mi è capitato spesso da dipendente di quella ASL, passeggiare tra i vecchi padiglioni, prima che tutti fossero ristrutturati. Ciò che maggiormente mi colpiva erano le scritte lasciate dai vecchi residenti della struttura e, proprio quelle scritte, mi hanno ispirato a scrivere un racconto su questo grande personaggio. L’ho immaginato con un look diverso da quello ritratto nelle foto dell’epoca: capelli tagliati a spazzola, indumenti uguali per tutti. Era un intellettuale, uno che amava scrivere e anche lui, probabilmente, avrà utilizzato come supporto per reggere le parole, le mura del manicomio.Spero di non aver banalizzato la grandezza intellettuale di Carlo Cafiero e se questo racconto, ritenete possa avere un valore, certo non intellettuale, ma di ammirazione per il personaggio, sono lieto di condividerlo con voi e i vostri lettori.