I primi mille giorni di vita sono fondamentali nello sviluppo dei minori. Secondo un rapporto di Save the children del 2019, le disuguaglianze legate alle condizioni socioeconomiche delle famiglie affiorano già nei primi anni di vita: la frequenza di un nido d’infanzia rappresenta un fattore determinante per lo sviluppo dei bambini in condizione di svantaggio economico, che già all’età di quattro anni possono accumulare un ritardo nell’acquisizione di competenze matematiche, di lettura, di scrittura, motorie e socioemozionali.
“Sappiamo ormai da tonnellate di studi che quello dei primi anni di vita, fino all’ingresso alla scuola primaria, è un periodo sensibile, dove si sviluppano aspetti importanti per il futuro dei bambini. E dove appaiono le prime disuguaglianze, destinate poi ad allargarsi nel percorso scolastico. Non è detto che non si possano recuperare, ma sarebbe meglio farlo prima”, afferma Christian Morabito, ricercatore per Save the children Italia.
Un asilo nido di qualità, aggiunge, “può fare la differenza. Significa anche creare un contatto tra il bambino e la famiglia, una continuità anche a casa, un’esperienza educativa. Oltre al fatto che permette di ridurre anche le disuguaglianze di genere in termini di lavoro, reddito, libertà di scegliere. Quella del nido è una politica potente”.
Secondo i dati dell’Istat elaborati da Openpolis e Con i bambini, nel nostro paese sono disponibili 27,2 posti in asili nido ogni 100 bambini. La percentuale, seppur in crescita, è lontana dagli obiettivi fissati dall’Unione europea del 33 per cento – recentemente innalzata a 45 – di minori da zero a tre anni che dovrebbero poter accedere a sistemi di educazione e cura per la prima infanzia.
Al 31 dicembre 2020, in Italia erano attivi 13.542 servizi per la prima infanzia, con più di 350mila posti autorizzati al funzionamento, di cui il 49,1 per cento in strutture pubbliche. L’offerta non è però uguale in tutto il paese, con grosse differenze tra nord e sud e tra città e aree interne. Le sole sei regioni che superano la soglia del 33 per cento si trovano tutte nell’Italia centrosettentrionale: Umbria, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Toscana, Lazio e Friuli-Venezia Giulia. Il nuovo obiettivo del 45 per cento, invece, oggi sarebbe superato solo in tre province emiliano-romagnole: Ravenna, Bologna e Ferrara (45,5 per cento).
Le richieste di fondi per gli asili nido sono state molto inferiori rispetto alle risorse disponibili. Le maggiori difficoltà a seguire i progetti sono nei comuni del sud
Tre regioni hanno poco più di dieci posti ogni cento bambini: Calabria, Campania (seppur in miglioramento) e Sicilia, dove nel 2018 cinque province non raggiungevano nemmeno la soglia del 10 per cento. Nell’isola il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi d’Italia e quello di abbandono scolastico vanta il primato nazionale, con più di un giovane su cinque che lascia gli studi prima del tempo.
Una delle misure bandiera del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), con cui l’Italia ha definito gli obiettivi da raggiungere con i fondi del programma Next generation Eu, riguardava proprio l’offerta dei servizi per l’infanzia e il superamento dei divari territoriali, con la previsione di uno stanziamento di 4,6 miliardi, di cui 2,4 per costruzione o ammodernamento di asili nido e 900 milioni per la loro gestione.
Ma il Pnrr non ha allocato direttamente le risorse. Tramite un avviso pubblico i comuni sono stati chiamati a presentare progetti tra cui selezionare quelli da finanziare, con criteri e scadenze precise. Nonostante l’urgenza della misura, le richieste di fondi sono state decisamente inferiori rispetto alle risorse disponibili. Ad avere maggiori difficoltà sono stati comuni del sud, in particolare di Sicilia, Basilicata e Molise. Tra le ragioni, la mancanza di dipendenti per seguire i progetti nei tempi stabiliti.
Il sistema dei bandi competitivi unito alla mancanza di una mappatura iniziale dei bisogni, secondo un recente studio dell’associazione Svimez ha penalizzato le realtà con minore capacità amministrativa. Il risultato è che, finora, le risorse disponibili per colmare i divari sulle infrastrutture scolastiche e per l’infanzia non sono state allocate coerentemente con i reali fabbisogni dei territori. “Sebbene la ‘quota sud’ sia stata rispettata, gli enti territoriali delle tre regioni meridionali più popolose – Sicilia, Campania e Puglia – hanno avuto accesso a risorse pro capite per infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana, nonostante le marcate carenze nelle dotazioni infrastrutturali che le contraddistinguono”, si legge nel rapporto. Secondo l’associazione, il tema andrebbe inserito in una riprogrammazione che “consenta di completare, dopo il 2026, il percorso di riduzione e superamento dei divari territoriali nelle infrastrutture scolastiche: con le risorse europee del Fesr (regionale e nazionale) e con il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) 2021-2027”.
“Moltissime aree non hanno tecnici in grado di realizzare questo tipo di progettazione. Anche perché la pubblica amministrazione è stata piuttosto depotenziata. Quindi è chiaro che le regioni o le aree dove questi servizi grosso modo esistevano già, partivano con un certo vantaggio”, spiega Morabito. “Mentre al sud, dove i servizi preesistenti sono meno, c’è stata anche meno domanda”.
“Un numero consistente di comuni con offerta assente o marginale non ha partecipato ai bandi”, e dunque “nonostante le ingenti risorse destinate alla fascia di età 0-3 anni, lo scenario che si delinea mostra che parte delle debolezze strutturali che caratterizzano l’offerta del servizio potrebbero restare irrisolte”, si legge in un report dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) del novembre 2022. Secondo l’analisi, a quella data, l’effettiva realizzazione dei posti stimati avrebbe permesso “a tutte le regioni del centronord di colmare e, spesso, di superare il divario tra i posti attualmente disponibili e quelli necessari” al raggiungimento dell’obiettivo. Campania e Sicilia, invece, “non riuscirebbero a colmare il gap dei posti mancanti”, ma mentre per la prima “sarebbero state necessarie maggiori risorse”, per la Sicilia, il ritardo è imputabile “alla mancata risposta da parte degli enti territoriali”.