Di tubi, dell’amore e di altri demoni. Sin da quando ero piccola, non ho mai amato le favole. A gran fatica riuscivo a sopportarne la lettura e finanche i racconti. Principi e fate non mi hanno mai appassionato e ancora oggi di molte conosco i titoli ma non, ahimè!, le storie. Ho sempre cercato la parte pratica della vita, quella esperienziale, vissuta. Per questo non avevo neppure le bambole ma in compenso ho amato le avventure storiche dei moschettieri di Dumas e i cavalieri di Re Artù, ancor più quando ho scoperto che Ginevra alla fine se ne fregava della dorata prigione del Re e sapeva correre di notte nel bosco per avvisare Lancillotto del pericolo degli agguati, con tale scusa cadendo ancora tra le sue braccia.
Leggevo stamane, per caso, una bellissima poesia della mia amata Wislawa Szimborska, intitolata “Conversazione con una pietra”, in cui lei continua a bussare alla porta di una pietra, cercando di convincerla che non le procurerà alcun danno.
“Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.”
Come dire… non ti rubo niente.
Ma la pietra, ostinata e irremovibile, continua a spiegare alla poetessa che entrarvi è impossibile, e il vero motivo – lo si scopre alla fine – è che essendo pietra non può avere porte.
Ha richiamato alla mia mente pietre a cui ognuno di noi ha tentato di bussare. O forse me stessa, che dona solo la sua superficie a chiunque.
Ma mi piace questo passaggio della poesia, in cui chi sta bussando cerca di dire che non cerca nella pietra né una casa, né la felicità, perché le ha già entrambe.
Allora perché bussiamo nelle pietre?
Ma torniamo alle favole.
Alcune cose nel tempo, parte di una conoscenza collettiva che pare non debba assolutamente sfuggire, pena una realistica dannazione, a nessun essere umano, le ho dovute per ovvi motivi imparare, a modo mio, con la mia rilettura e il condimento del mio sentire, mai pedissequamente seguendo lo schema del così è, come ogni cosa della mia vita.
Tipo, non ho mai capito perché il gatto aveva gli stivali ma so per certo che la bella addormentata è stata svegliata nel bosco dal principe, che per qualche motivo deve essere azzurro, mentre beatamente dormiva e senz averlo affatto chiesto, di essere disturbata nella sua sonnolenta quiete. Questo passa e la sveglia senza chiedere permesso. Screanzato, altro che principe!
E poi non lo sappiamo che è successo, un giorno a questa bella addormentata magari, come a me, si è otturato lo scarico del lavello della cucina proprio mentre si accingeva ad affettare le zucchine appena raccolte per farle alla scapece!
E lei, che aveva dormito tanto invece di andare appresso al cugino idraulico per capire come spilare i tubi, bello e buono pretende che il principe le sgorghi lo scarico. Apriti cielo! Il principe teneva da fare quel momento ma lei ha iniziato a pretendere aiuto e proprio da questo scontro è nata un’altra favola bellissima. Le mille e una notte. Di tragedia però. Ecco perché a me piace dormire ma anche sgorgare i tubi degli scarichi. Perché sono come Wislawa con la pietra. Non ho bisogno del principe per pulire i tubi, ho il corpo esile e dopo gli ultimi calci di kick vent’anni fa non ho mai granché allenato i miei muscoli, se non faticando o salendo sugli alberi, ad esempio, ma quando prendo l’acqua a Castellammare me ne porto almeno 50 litri divisi sulle due spalle susu per 4 piani di scale senza ascensore in un viaggio solo. Senza prendere fiato. Respiro al primo gradino e sorrido, quando la porta è davanti ai miei occhi.
A quale principe potrei mai chiedere tale sforzo?Allora le mie amiche favoliste mi dicono che io faccio sentire gli uomini accanto a me inutili. Eppure io non ci credo.
Si sente inutile l’uomo che non regge il passo. Ma, favole a parte, non basta saper baciare una che dorme, per essere principe.
Nemmeno essere un grande amante, nemmeno questa troppo rara qualità.
Non bisogna nemmeno saper pulire i tubi di scarico o fare il cambio dell’olio alla macchina.
L’uomo che passa nella mia vita non deve saper fare nessuna di queste cose, perché a me piace farle da me. Non gli lascio le borse della spesa, non rimango a guardare mentre zappa, non gli chiedo di venire in carrozza mentre scendo con la scarpetta, perché, seppure dovessi quella volta sporadica mettere due cm di tacco, tengo sempre a portata di mano i giapponesi di gomma per i percorsi impervi e, se proprio scasso il tacco, cammino scalza perché l’universo, se mi lascia scalza, è per sentire l’energia della terra.
L’uomo che passa nella mia favola, e nella mia favola personalizzata questo vale per la vita di chiunque, deve solo saper aggiungere. La follia. Qualcosa che ci spinga oltre il nostro limite e se non ne abbiamo uno ce lo faccia scoprire, per essere oltre.
Un abbraccio coi pensieri che si parlano, un brindisi con un bel bicchiere di vino, ascoltare il mare. Questo aggiunge. Ogni volta che pretendiamo da qualcuno che faccia quello che possiamo fare benissimo da soli, quello sottrae.
Io non potrei mai essere Cenerentola che vive la sua notte da regina e poi deve aspettare se e quando il principe si ricorda di cercarla con in mano la scarpetta. Anche perché porto il 38 e il 38 è il numero della scarpetta di metà della popolazione femminile.
Va a finire che si ferma al primo piede che trova, e non arriva più al mio, povero lui!
Anche perché io di scarpette non ne metto mai, il mio principe al massimo dovrà cercare la puzza del mio piede quando esce dal calzino sudato. Semmai abbia avuto il coraggio, dopo il ballo, di amnusarne l’odore, e se è un vero principe lo riconoscerà tra mille, quel sudore.
Nelle mie favole, siamo anche stanche delle frasi romantiche e costruite dei principi delle parole, magari ripetute in serie perché in passato con qualcuna ha funzionato.
A cosa ci serve la luna a illuminarci la testa, se ti ispira una poesia che il giorno dopo rinneghi perché è fatto giorno?
Intanto, nella mia favola, è passato giusto il tempo utile a produrre l’effetto della soda caustica che ho buttato nel tubo. Intanto, aspettando, ho ripensato a quanto orgoglio ho di essere ciò che sono, e questo mi fa scrivere la mia favola ogni giorno e anche qualche lungo post, perché la parola fluisce senza intoppi e senza necessità di disostruire tubi appilati, da me a voi quattro lettori e mezzo dei miei post.
Perché tanto, la parte più bella della mia vita è quella che riesco a passare in silenzio. E se nessuno viene a sporcarlo con parole finte e di circostanza, ma anzi lo esalta e lo divide con me, questo è più principe, moschettiere e cavaliere di qualsiasi favola e racconto mai scritto.
E fa niente se ti costringe a conversare, come Wislawa, con una pietra.
Perché anche ciò che apparentemente sembra inanimato e senza valore può invece avere dentro tutto un vuoto da riempire e una vita da scoprire. Ma cosa si può fare con una pietra senza porta? Per scoprirlo, dobbiamo prima trovarla e poi, carezza dopo carezza, scrivere la nostra favola.
Vado a rimontare il sifone. Ma la mia pietra sa quanto, con queste parole, senza che mi abbia aperto la porta, io l’abbia accarezzata. E se tutto va bene, visto che ho prodotto e raccolto le zucchine, oltre alla scapece mi faccio anche un buonissimo spaghetto alla nerano.
E questo mio volermi bene è davvero la mia favola.