Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: 36 all’ombra. Due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli, in piedi, impettiti sull’attenti, stipati nella stanza del comandante generale dell’arma dei carabinieri, sudavano. Né era pensabile che ci si potesse sedere, spalancare le finestre, farsi venire su delle granite dal bar all’angolo di viale Romania. Sarebbe stato più confortevole, ma assai sconveniente e incompatibile con la solennità del momento. Calmo e severo, nonostante fosse il più grasso e il più sudato di tutti, il comandante generale, Giovanni De Lorenzo, stava concludendo il rapporto agli ufficiali: «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ci chiama e ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obbiettivi che ci verranno indicati».
A quella stessa ora, a pochi chilometri di distanza, nei giardini di Villa Madama, Pietro Nenni s’era disteso in maniche di camicia su di una panchina, e s’era addormentato. Da due settimane, giorni e notti, stava trattando la ricostituzione del governo di centro-sinistra, rovesciato dalla Camera il 25 giugno. Era stanco, deluso, e angosciato, come aveva confessato dinanzi al comitato centrale del Partito Socialista: «Ho paura. Ho imparato in cinquant’anni di lotte ad aver paura della destra, a non sottovalutarne le minacce e la forza. Ho paura delle elezioni, perché è difficile credere che nuove elezioni possano offrire una soluzione, mentre aumenterebbero un vuoto di potere utile soltanto alla destra».
Saragat scuro in volto
Non gli aveva creduto nessuno. Erano voci fantastiche, messe in circolazione da qualche mese, da prima ancora che il governo cadesse, chiacchiere da salotto e da trattoria. Il 2 giugno una brigata corazzata di carabinieri, una brigata nuova, mai vista prima, era sfilata per i fori imperiali, carabinieri paracadutisti su carri armati pesanti. Il presidente della Repubblica, Antonio Segni, s’era commosso, e aveva pianto. Un giornale di destra aveva scritto: «I carri armati pesanti non sono utilizzabili per la cattura dei ladri, possono servire ad altri impieghi». Il corrispondente da Roma del Figaro aveva aggiunto: «Sull’arma dei carabinieri si può fare affidamento, è potente, sicura, popolare». Un altro giornale straniero, il quotidiano di Amburgo Die Welt aveva parlato di «una diffusa irrequietezza degli alti ufficiali delle forze armate». Che poi era stato solo un banale incidente di certi ufficiali che avevano protestato, a Spoleto, contro la rappresentazione teatrale di Bella ciao. Né si poteva dare soverchio peso ad un pranzo di cortesia dell’ambasciata francese, dove erano intervenuti il generale Aloia e il capo di Stato Maggiore francese, Louis Le Poulouc.
Un po’ di sensazione, se mai, aveva fatto il discorso improvvisato dal generale de Gaulle, durante un ricevimento all’Eliseo la sera del 1° luglio: «L’Italie», aveva detto il generale, «en est a l’heure de la Quatrième Republique». Il governo infatti era caduto da cinque giorni, il presidente del Consiglio Moro si era dimesso, tutti i gruppi della maggioranza lo avevano concordemente designato come unico candidato per il reincarico, ma Segni, non lo aveva ancora richiamato al Quirinale. Perché? C’erano anche stati, durante le consultazioni, un paio di strani incidenti. Prima l’onorevole Roberti, presidente del gruppo parlamentare del Movimento Sociale, all’uscita dal Quirinale aveva dichiarato: «Tutti, dal capo dello Stato all’ultimo lavoratore sono convinti che il governo Moro sia stato il più disastroso che l’Italia abbia avuto…». E l’aveva detto come se glielo avesse detto Segni. Poi il capo dei senatori democristiani, Gava, s’era lasciato sfuggire coi giornalisti: «Certo, abbiamo designato Moro, e nessun altro nome, almeno in questa prima fase…».
E Segni non gli dava l’incarico. Perché? Serpeggiava una certa inquietudine, Togliatti fece un comizio a San Giovanni e proclamò ch’era venuto il momento della “nuova maggioranza”, dell’ingresso dei comunisti nel campo governativo. Certi teppisti fecero esplodere dei petardi, forze ingenti di polizia in assetto di guerra bloccarono il centro della città, tre automobili, noleggiate dal movimento per la nuova repubblica organizzato da Pacciardi, scorrazzarono indisturbate tra piazza del Popolo e piazza di Spagna, deserte, inondando le strade di volantini “Basta con Moro”.
Finalmente la sera di venerdì 3 luglio, Segni chiamò Moro, lo tenne tre ore nel suo studio, e gli conferì l’incarico. Ma all’uscita il presidente del Consiglio designato dovette leggere un lunghissimo documento, pieno zeppo di correzioni, che gli imponeva una riserva di nuovo tipo e senza precedenti: si impegnava a riferire periodicamente, nel corso delle trattative, al presidente della Repubblica. La domenica successiva Pacciardi andò a Bari ad un comizio dei centri di azione agraria del principe Sforza Ruspoli che annunciò: «Porteremo la rivolta in tutte le campagne, centomila rurali e trentamila edili entreranno trionfalmente a Roma». Il giorno dopo L’Osservatore Romano pubblicò la notizia che il papa aveva ricevuto in udienza il professor Luigi Gedda, dopo l’assemblea, tenuta al “Getsemani”, dei dirigenti dei Comitati civici di tutte le regioni centro settentrionali.
Ma chi poteva prendere sul serio, nel luglio del 1964, Gedda, Pacciardi, Sforza Ruspoli, i petardi dei giovanotti dell’“Alleanza nazionale”? Era mai possibile che Nenni provasse angoscia, avesse paura di costoro?
Le trattative procedevano faticosamente. Patto atlantico, delimitazione della maggioranza, legge urbanistica, regioni, scuola privata, commissioni, sottocommissioni, tecnici, esperti, riunioni di gruppi, di direzioni dei partiti, emendamenti. Più i socialisti cedevano sul programma, pezzo per pezzo, più si moltiplicavano le richieste e le difficoltà avanzate dai democristiani. Si rompeva, si ricuciva, si rompeva di nuovo, Moro riprendeva pazientemente le fila. La situazione economica era pesante, il governo era stato rovesciato proprio mentre si accingeva a varare i provvedimenti anticongiunturali, si prevedevano seicentomila disoccupati per l’inverno, entravano in sciopero i ferrovieri, per tre giorni di seguito non uscirono i quotidiani, così la gente non seppe nemmeno cosa stava succedendo di preciso. Fu l’annunciatore della televisione, la sera di lunedì 13 luglio, a leggere un breve e secco comunicato: «Il presidente della Repubblica ha ricevuto stamane al Quirinale il comandante generale dell’arma dei carabinieri, generale Giovanni De Lorenzo».
Giuseppe Saragat arrivò a Villa Madama trafelato, scuro in volto. Vide Nenni disteso sulla panchina, col cranio lucido poggiato alla pietra e le scarpe coperte di polvere. Si girò verso il gruppo dei democristiani, e si mise ad urlare: «Guardate questo povero uomo, cinquant’anni di milizia socialista, vent’anni d’esilio, una figlia trucidata dai nazisti. Ha portato il partito al governo, ha pagato il prezzo di una scissione, ha sacrificato tutto per il centro-sinistra, per allargare le basi della democrazia. E voi ci state giocando, state scherzando col fuoco. Ora basta, non siamo più disposti a trattare. Le nostre ultime condizioni le conoscete. Dateci la vostra risposta, e sarà quello che sarà».
Il generale De Lorenzo aveva cominciato con lo stringere la mano a tutti gli ufficiali, uno per uno. Li conosceva tutti personalmente da anni, da quando stavano con lui al Sifar, e con tutti aveva conservato stretti legami, superando le formalità gerarchiche, favorendoli nella carriera, nelle promozioni, nei trasferimenti, ciascuno chiamato al momento giusto al posto giusto; di pari passo alla riorganizzazione dei carabinieri, al riarmo, al concentramento di tutti i battaglioni mobili in un’unica brigata corazzata, armata modernamente, di tutto punto, e finalmente convogliata a Roma, per la sfilata del 2 giugno. Era un “rapporto” singolare, un rapporto senza precedenti, fatto soltanto per “certi” ufficiali, per “quegli” ufficiali, quasi un appuntamento preparato da molto tempo.
E cominciò con un discorso inedito, un discorso sulla situazione economica del paese. Voi conoscete certamente, disse, la lettera che il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, ha inviato due mesi fa a Moro. È una lettera responsabile, meditata, che riflette opinioni e preoccupazioni dello stesso presidente della Repubblica. È un ultimatum alle richieste, alle pressioni dei socialisti, e ne va di mezzo la struttura economica e sociale del paese. La vera crisi è questa. Vedete dove siamo arrivati, l’inflazione, l’aumento del costo della vita, i disoccupati, gli scioperi.
Il presidente della Repubblica è molto preoccupato di questa situazione. Dispera ormai che i socialisti si pieghino alla realtà e rinuncino alle loro pretese. Le trattative si trascinano da venti giorni senza risultato. Il paese ha urgente bisogno di un governo, di un energico intervento economico. Il presidente della Repubblica non può permettere che si continui così: ha dato a Moro un termine ultimo, fino a sabato prossimo. Se per quel giorno Moro non gli porta l’accordo sul programma, il programma richiesto dalla congiuntura, Segni gli toglierà l’incarico per il centro-sinistra e varerà un governo di emergenza, monocolore, costituito da tecnici e da militari. Non possiamo sapere come reagirà il Parlamento: potrà votargli la fiducia con una larga maggioranza, e magari anche l’astensione dei socialisti, come avvenne l’anno scorso con il governo Leone; oppure potrà costituirsi una maggioranza di centro-destra, come nel 1960, o addirittura nessuna maggioranza, e bisognerà sciogliere le Camere e andare alle elezioni.
Il piano d’emergenza
Segni mi ha chiesto, ha continuato De Lorenzo, se in queste due ultime ipotesi, sono in condizione di garantirgli l’ordine pubblico, di far fronte a movimenti di piazza come quelli di quattro anni fa. Gli ho risposto che siamo in grado di farlo, di garantire l’ordine, a patto di essere autorizzati a preparare per tempo i piani di emergenza necessari. Il presidente della Repubblica mi ha autorizzato, conta sulla dedizione e sulla capacità dell’arma. Da questo momento, perciò, dobbiamo considerarci in permanente “stato di allarme”, le esercitazioni che abbiamo organizzato in queste ultime settimane non devono essere considerate un fatto di ordinaria amministrazione. Gli uomini devono essere mantenuti in stato di emergenza e dobbiamo tenerci pronti per attuare in qualsiasi momento il piano E S.
A questo punto, pronunciato il fervorino finale, il generale De Lorenzo mise finalmente in libertà i suoi ufficiali. Generali e colonnelli presero posto sulle poltrona, depositarono i berretti, e presero visione, con maggiore comodità, del particolari dell’operazione. Il “piano E S”, che significa “Emergenza S”, è infatti un vecchio piano, predisposto per le forze di polizia fin dai tempi di De Gasperi, ma periodicamente aggiornato e perfezionato. Per il 14 luglio del 1964 le novità fondamentali si riferivano alle “liste”. Uno dei punti essenziali del piano “E S” consiste nella “occupazione delle sedi dei partiti e nell’arresto degli esponenti politici, e nel loro concentramento in alcune località predeterminate”. Per l’occasione le “liste” nuove si erano arricchite, rispetto a quelle precedenti, di un lungo elenco di esponenti della Dc, fino ad arrivare al nome del più famoso ministro degli Interni del dopoguerra, Mario Scelba. Le località fissate per il “concentramento” erano Genova, Napoli e Palermo, e la destinazione finale era la Sardegna.
La riunione finì a tarda sera. Al termine, uno dei colonnelli più giovani, quel Mario Filippi il cui nome è tornato nelle cronache delle ultime settimane a proposito del fascicolo dedicato dal Sifar a Giuseppe Saragat, si alzò per esprimere, a nome dei presenti, il consenso e l’impegno per l’opera del comandante generale. E non mancò, com’era giusto, di raccomandarsi perché nel progettato governo fosse garantita, attraverso la diretta assunzione da parte di De Lorenzo del ministero della Difesa, la “presenza” dell’arma.
Un leggero vento di ponente scese a sciogliere la pesante calura di quella singolare giornata di luglio. Saragat si prese Nenni sotto il braccio e lo trascinò fuori del cancelli di Villa Madama, mentre due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli si sparpagliavano per l’Italia, per preparare le loro truppe al colpo di stato.
Un colpo di stato che non si fece più. Perché Nenni cedette ancora, e Moro e Saragat rimisero insieme un governo di centro-sinistra: l’accordo fu firmato la notte tra venerdì e sabato, appena in tempo, e il nuovo governo si presentò alle Camera per la fiducia prima della fine del mese. Nelle more del dibattito, un settimanale di estrema destra, il cui direttore si è spesso vantato di avere familiari contatti con il generale De Lorenzo, pubblicò una lettera aperta al presidente della Repubblica: «Autorevoli personaggi», diceva la lettera a Segni, «venivano a riferirci la Sua accorata preoccupazione per le condizioni in cui stava cadendo l’Italia sotto il centro-sinistra. Possiamo fare i nomi, indicare i giorni, e i luoghi degli incontri… Lei ci era stato descritto da personaggi degni di fede come l’uomo preoccupato soltanto di trovare una via d’uscita dal marasma politico, economico e sociale del centro-sinistra. E noi tutti ci eravamo sentiti incitati a contribuire a provocare la crisi, ad aiutare il crollo del governo, per offrire a Lei il modo di intervenire».
La giornata del 7 agosto
Quasi contemporaneamente, Nenni scriveva sull’Avanti!: «Improvvisamente i partiti e il Parlamento hanno avvertito che potevano essere scavalcati. La sola alternativa che si è delineata nei confronti del vuoto di potere conseguente ad una rinuncia del centro-sinistra è stata quella d’un governo d’emergenza, affidato a personalità così dette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del paese qual è, sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito».
Una settimana dopo la conclusione della crisi, il 7 agosto, mentre il nuovo governo era riunito a Palazzo Chigi, Moro e Saragat si assentarono per recarsi al Quirinale. Moro doveva riferire a Segni sulle conclusioni del dibattito alla Camera e Saragat doveva sottoporgli la lista di un movimento diplomatico. Il colloquio tra Segni, Moro e Saragat si svolse nello studio, al piano terreno della palazzina, di fronte al parco. Durava da quasi un’ora, quando qualcuno di dentro chiamò aiuto. Dissero poi che Segni, mentre stava parlando, aveva improvvisamente mostrato qualche difficoltà, «parlava come se avesse una caramella in bocca», e che subito si era curvato sulla scrivania, come per premere il bottone dell’usciere, e che v’era crollato bocconi, fulminato dalla paralisi.
Si disse anche, più tardi, che c’era stata una discussione accesa, un diverbio, che Segni pretendeva la promozione di un certo ambasciatore, e che Saragat ai rifiutava. Ci fu però un ufficiale dei corazzieri, ch’era di sentinella sull’uscio, che udì distintamente Saragat gridare: «Basta con queste prepotenze. So tutto del 14 luglio. C’è abbastanza per mandarti dinanzi all’Alta Corte».
Molto più tardi, quando Saragat era già presidente della Repubblica, ed erano sul tappeto le nomine dei nuovi capi di Stato Maggiore dell’Esercito e della Difesa, il generale De Lorenzo si è difeso dalle accuse che gli venivano mosse dai suoi avversari, rivendicando a sé il merito di aver bloccato il colpo di stato del 14 luglio. «Presi quelle misure», egli ha detto in un colloquio riservato, «perché mi fu ordinato da Segni. E accettai di farlo io, proprio per tenere la situazione sotto controllo, perché non uscisse veramente dall’alveo costituzionale. Fui io stesso a insistere con Segni perché mi comunicasse il nome del nuovo capo del governo e la composizione del ministero. E quando mi accorsi dalla sua reticenza che egli aveva progetti riposti, o addirittura non ne aveva nessuno, e farneticava, forse già minato dal male, protestai e lo dissuasi».
Evidentemente hanno creduto a De Lorenzo, se poi, anziché punirlo, lo hanno promosso due anni dopo capo di Stato Maggiore dell’Esercito. A meno che non ci sia un’altra spiegazione, a meno che i misteri del Sifar (dei quali cominciamo da poco a intravedere la complessità) non nascondano altri fatti e altri nomi. È quanto vedremo.