L’accostamento tra le donne e le pratiche magiche è giustificato dalle attività, per arcaica tradizione, di competenza femminile, come la raccolta ed elaborazione delle erbe, delle radici e delle bacche. È probabile poi che la conoscenza delle spezie e delle droghe, attirasse nelle competenze della donna le attività connesse, come la preparazione dei primi farmaci. Il passaggio da questi rimedi ai filtri d’amore e di conseguenza dedita ai maleficia, il passo è breve e non si ferma nell’antichità. Infatti, le prime accuse di stregoneria cominciano negli ultimi secoli del Medioevo, per poi farsi più frequenti nella prima età moderna. Dagli anni Trenta del XV secolo comincia a comparire nel lessico giuridico il termine “strega” associato a donne accusate di maleficia, e dagli atti del processo contro Matteuccia di Francesco, avvenuto a Todi nel 1428, già si evince l’identificazione fra donna dedita a malie e strega è già avvenuta. Matteuccia, infatti, fu giudicata da un tribunale guidato da Lorenzo de Surdis e condannata al rogo poiché feminam male conditionis vite et fame, publicam incantatricem, facturariam et maliariam et stregam. Il processo a carico di Matteuccia da Todi è uno dei più antichi in Italia ed è molto utile non soltanto perché dimostra a quale pena fossero sottoposte le imputate di stregoneria, ma anche perché, grazie alla trascrizione scrupolosa delle confessioni della donna, è possibile ricostruire diverse informazioni in merito alla vicenda. A Matteuccia si rivolgeva una vera e propria clientela e per questo motivo dovette attirare su di sé molte attenzioni. Le situazioni verso cui era chiamata a intervenire erano quelle che più preoccupavano le donne, che costituivano la maggioranza dei suoi clienti, ossia sanare relazioni d’amore complicate. Alcune volte la fattucchiera aveva il compito di ricondurre il marito alla moglie o l’amato all’amante e per farlo prescriveva bevande fatte con l’erba costa cavallina, facendo contemporaneamente pronunciare queste parole: “Io te do a bevere questo al nome de fantasma / et delli spiriti incantati, / et che non possa dormire et ne posare /perfinché facci quello che te voglo comandare”. È questo il caso di una coppia in difficoltà, da lei recatasi dal castello di Collemezzo. I coniugi si diressero insieme dalla nota fattucchiera, come riportano gli atti, ma è la donna quella a cui sembra premere maggiormente l’intervento di Matteuccia: si lamenta del fatto che il marito la tratti male e chiede perciò un rimedio. Matteuccia sembra avere la soluzione: “diede alla suddetta moglie un uovo e l’erba denominata costa cavallina e disse di cuocerli insieme e di darli a mangiare al detto suo marito che si sarebbe infatuato per qualche giorno; e la detta moglie fece così ed il detto marito infatuatosi rimase furioso per tre giorni”. È grazie all’elenco delle colpe della fattucchiera, composto dagli accusatori, che si è a conoscenza di diverse informazioni riguardo ai suoi clienti e metodi di cura. Dalla lista risulta che una donna del distretto di Perugia si recò da Matteuccia chiedendo un rimedio per ottenere qualsiasi cosa volesse dal suo amato: la fattucchiera le consigliò di far bere e mangiare la polvere di rondini bruciate a colui che amava. Una donna chiamata Giovanna, sempre del distretto di Perugia, chiese aiuto a Matteuccia per riconquistare il marito che aveva iniziato una relazione con un’altra donna: le fu suggerito di catturare un rondinino e, dopo averlo nutrito con lo zucchero, di farlo mangiare al marito. Inoltre, le aveva consigliato di dargli da bere l’acqua utilizzata per lavarsi i piedi. Seguendo, dunque, le indicazioni di Matteuccia e realizzando questi filtri d’amore, tali donne avrebbero potuto condizionare l’altrui volontà e cambiare l’ordine naturale delle cose: chiaramente un comportamento del genere non poteva essere accettato in una società che tutto voleva prevedere e normare. Di conseguenza, chi, come Matteuccia, cercava di indirizzare le cose secondo un proprio disegno, andava punita in maniera esemplare. Il francescano osservante Bernardino da Siena si impegnò nel perseguire l’attività di Matteuccia da Todi e persuase le piazze a vedere nella “aggiustatrice di relazioni” una fattucchiera pericolosa, artefice di sortilegi e dunque strega. Ciò mise in moto un processo contro di lei basato sulla sua fama e sulle dicerie giunte a conoscenza del capitano Lorenzo de Surdis e della sua curia. È indicativo, anche per la sua risonanza letteraria, il caso di Caterina Medici, un’altra donna accusata di essere coinvolta in pratiche magiche e in malefici amorosi. Caterina nacque a Broni, nell’Oltrepò pavese, intorno al 1573. A tredici anni fu data in sposa a Bernardino Zagalia, di Piacenza, che la picchiava, e la costrinse alla prostituzione. Nel 1592, in seguito forse alla morte del marito, iniziò a lavorare come serva cambiando diverse città. Dalla fine del secolo, per dodici anni, lavorò per il capitano Giovanni Pietro Squarciafico nel Monferrato, con cui ebbe tre figli, ma il loro legame non servì a migliorare la situazione di Caterina. La loro separazione fu decisa del vescovo di Casale Monferrato per porre fine allo scandalo dovuto alla loro relazione concubinaria. Dopo essere stata al servizio in diverse altre case, dal gennaio 1613, per un breve periodo, fu a servizio presso un tale capitano Vacallo. Dalla casa di costui, però, fu licenziata perché ritenuta complice di un maleficio amoroso ai danni del padrone insieme a una certa Caterina da Varese, di condizione sociale molto bassa e di cui il capitano si era innamorato.
Nel 1616 divenne serva in casa del senatore Luigi Melzi d’Eril. Circa due mesi dopo, il senatore cominciò a lamentare un forte disturbo allo stomaco che gli illustri medici, Ludovico Settala, Giacomo Antonio Clerici e Giovanni Battista Selvatico, ritennero incomprensibile e incurabile. Pochi mesi dopo capitò a casa Melzi il capitano Vacallo, che riconobbe Caterina e convinse il senatore che la colpa della sua misteriosa e inguaribile malattia era da imputare senza dubbio alla donna e alle sue arti magiche. La versione del capitano fu condivisa non solo dai medici, ben contenti di attribuire i loro insuccessi a cause soprannaturali, ma anche dai figli di Melzi. Le due figlie, entrambe monache nel convento di S. Bernardino, dissero di aver trovato gli oggetti del maleficio nascosti nei cuscini del letto del senatore; questi però sparirono presto, bruciati dal curato ed esorcista di S. Giovanni Laterano. Caterina fu sottoposta a interrogatori da familiari e conoscenti del Melzi ancor prima dell’accusa formale avvenuta nel dicembre del 1616. Dopo otto interrogatori, di cui almeno due sotto tortura, la donna confessò di essere una strega e di aver commesso malefici ai danni di molte persone, oltre che del senatore Luigi Melzi. Condannata al rogo, il 4 marzo 1617, fu trasportata su un carro lungo le strade di Milano, mentre il carnefice la torturava con tenaglie roventi, infine fu impiccata e bruciata. La sua storia, come si è accennato, ebbe un eco letterario. A occuparsi per primo della vicenda fu Pietro Verri, che però lasciò a riguardo solo appunti manoscritti. Una magistrale ricostruzione storica della vicenda, effettuata risalendo alle fonti, si deve a Leonardo Sciascia nell’opera La strega e il capitano, Bompiani, Milano 1986. Per approfondire l’argomento si rimanda a: Maria Giuseppina Muzzarelli, Nelle mani delle donne, nutrire, guarire, avvelenare dal medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2013; D. Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco. 20 marzo 1428, Todi, 1969; Candida Peruzzi, Un processo di stregoneria a Todi nel 400, «Lares» 21, 1955.