Giorgio Napolitano era uno dei «ragazzi dell’Umberto I». Come Raffaele La Capria, come Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Francesco Compagna, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson, Rosellina Balbi. Una generazione formidabile di intellettuali impegnati nella vita civile del Paese. Quando ci si trova di fronte a questi grappoli di cervelli, che crescono tutti insieme nello stesso tempo e nello stesso luogo, ci si deve chiedere perché. La risposta potrebbe darci infatti qualche indicazione anche su Napoli, sulla sua storia, sul suo presente e sul suo futuro. Se è successo una volta (e nella nostra città a dire il vero è successo tante volte) vuol dire che può succedere ancora. Ma da qualche tempo non succede. Perché? Il liceo, innanzitutto. Chiunque abbia avuto la fortuna di frequentarne uno, sa che cosa significhi per la promozione culturale, per l’afflato intellettuale, per la solidarietà generazionale. Se poi è un buon liceo, anzi un ottimo liceo, come era l’Umberto I, allora la cosa vale ancora di più.
La scuola dunque conta per formare una classe dirigente. Anzi, conta più di ogni altra cosa. Chiediamoci perciò: ci sono oggi licei a Napoli in grado di sfornare una nuova «élite»? Facciamo abbastanza perché ci siano o abbiamo ormai vergogna della parola «élite»? Vogliamo capire che senza una élite non c’è un sistema Paese? In un suo libro, La neve del Vesuvio , Raffaele La Capria ha raccontato il clima ideale del liceo Umberto I ai suoi tempi: «Durante il fascismo aveva fama di scuola liberale, come il suo preside D’Alfonso, laico e crociano, ed era una cosa quasi unica. Il professore di italiano si chiamava Haberstumpf ed era forse un ebreo rifugiato proveniente da Vienna. Era ebreo e antifascista nel momento in cui si allungava l’ombra delle leggi razziali».
Il giorno in cui sotto alla scuola si svolse una manifestazione di fascisti che inneggiavano alla dichiarazione di guerra di Mussolini alla Francia, e che cercavano di spingere i ragazzi a lasciare le classi e a unirsi a loro, il professore disse ai suoi alunni: «Le idee non sono sempre sacre, ma le parole sì. Non fatevi incantare dalle parole. Imparate a usarle bene, non a gridarle. Neanche se le vedete scritte a caratteri cubitali sui muri. Neanche se tutti le urlano insieme nelle piazze». Da un altro punto di vista, anche la formazione universitaria rimanda all’importanza della scuola napoletana di un tempo. Sarà un caso se tutti e tre i presidenti napoletani, e cioè Enrico De Nicola, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano, si sono laureati in Giurisprudenza alla Federico II?
C’è poi un altro elemento che è stato decisivo ai fini della formazione di classi dirigenti come quella dei ragazzi dell’Umberto I. Anche i partiti di massa hanno funzionato da scuola. Hanno selezionato i migliori, li hanno messi a confronto e in competizione con le generazioni precedenti, accelerandone la maturazione, li hanno immersi in una temperie culturale che li ha forgiati, li ha abituati al sacrificio, all’impegno e alla serietà nello studio. Giorgio Napolitano è diventato ciò che è diventato perché è emerso come giovane di valore alla scuola di Togliatti, che all’VIII congresso, nel 1956, promosse la sua generazione nel segno del «partito nuovo». Quello stesso partito ha fornito altre grandi personalità napoletane alla Repubblica, da Giorgio Amendola a Gerardo Chiaromonte, da Mario Palermo a Maurizio Valenzi. Da Napoli venivano i socialisti Arturo Labriola e Francesco de Martino. La Dc in Campania fu una fucina di grandi dirigenti, ragazzi che non avevano alle spalle famiglie ricche e potenti ma che si affermarono per le loro doti intellettuali, cito solo Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco.
Purtroppo questo secondo fattore, il partito di massa, non è più disponibile oggi. Ma la scuola sì, o almeno dovrebbe esserlo. Quando ci chiediamo perché Napoli da tempo non produca una classe dirigente di valore (ma per fortuna continui ad eccellere nelle arti come la musica, il cinema, il teatro, a dimostrazione che qui il talento abbonda) forse dobbiamo interrogarci su questo. È un’altra lezione che l’amore di Giorgio Napolitano per la sua città ci lascia.