ANDRA’ TUTTO BENE
….. Achille Mbembe, filosofo camerunense, ha scritto che l’umanità era già in pericolo di soffocare prima del virus. Che se si parla di guerra dovrebbe essere contro tutto ciò che il capitalismo usa per condannarci a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Una guerra in nome del diritto universale al respiro. Che non è solo materia di biologi, che non si può comprare. Questo ha scritto e noi dovremmo innalzarci a una concezione tanto alta dell’esistenza, noi che ci siamo abituati a sopravvivere e ci sfugge l’essenziale in mezzo all’abbondanza di puro nulla.
….. Cosa stiamo diventando? Senza più poterci affidare alla comunanza di esperienze per orientarci nelle scelte, senza più parole in bocca per i lunghi silenzi, senza gli spazi liberi per gli occhi e l’immaginazione, senza respirare all’unisono con chi ci passa accanto. La percezione del tempo si è contratta e con essa quella dei linguaggi, delle fattezze e delle dimensioni. Per non dire dei corpi. Il vecchio codice con cui interpretare il mondo è saltato e quello nuovo non deriva dal vissuto ma ci arriva irrigidito attraverso il calcolo di un algoritmo. Abbiamo perso noi stessi e l’intenzione.
….. Un enorme carcere ci si è chiuso addosso governato con l’arbitrio di chi ha il potere di decidere con chi e quanti si può socializzare e, attenzione! che il vicino controlla.
….. Ma può accadere anche di peggio delle sbarre alle finestre. Si può perdere ogni residuo di comunanza e ritrovarsi in un circuito infernale di informatori e richiami all’ordine che è pur sempre rassicurante anche se perde via via ogni credibilità. I dettagli sovrastano la tragedia. Mentre si susseguono governi del presidente e mazzate impietose alle conquiste dei nostri tempi migliori, l’attenzione si concentra sull’aperitivo, fosse anche on line, eletto a misura della qualità della vita. E della lunghezza del guinzaglio che ci hanno stretto al collo.
I nostri ragazzi, come i nostri vecchi, sono diventati ingombranti. Creano problemi senza essere produttivi. Per loro misure straordinarie di contenimento. Sempre per tutelare la loro salute che non si capisce più cosa sia. Come se le distanze possano essere un toccasana per le difese immunitarie di ciascuno. Giovani chiusi per mesi davanti a uno schermo. Impensabile. I migliori bersagli dell’accusa di propagatori virali. All’apertura delle gabbie le cronache si riempiono di episodi allarmanti. I più contaminati dalla cultura politica dominante alimentano il modello vincente della legge del più forte. Coniugata soprattutto al maschile, con qualche inquietante eccezione. Consumatori di spiccioli di un presente precario e un futuro neanche a pensarci. Deprivati della parola politica. Inerti. Versione tragica della conformità connivente degli adulti. Addestrati a una violenza che implode al loro stesso interno, fra simili che non si riconoscono per sfuggire alla comune condizione di scarti. Un esercito di esuberi dai conteggi ministeriali della forza lavoro necessaria. Prodotti di decenni di criminalizzazione della politica sovversiva, delle pratiche solidali, del pensiero critico. Persino del dubbio. Di propaganda dell’effimero, di deboli pensieri, di ricette prestampate e muscoli scattanti. Del consumo del pezzo di mondo che gli è concesso occupare. In cui si affollano e si contendono l’aria e il territorio.
Vittime e carnefici si somigliano. Per la stessa precarietà di esistenza. Quella che non vale un ripensamento delle politiche aziendaliste in ogni campo del vivere sociale. Tutto al ribasso e all’arrembaggio a forza di calci e pugni se si finisce per ignorare cosa altro saper fare. Per primeggiare ultimi tra gli ultimi. La traduzione violenta dei programmi ministeriali che straparlano di eccellenza in una scuola che ha perso la sapienza e un mercato del lavoro che sottopaga quando lo fa. L’eredità di Barbiana dispersa in una sequenza di narrazioni che dovrebbero far arrossire di vergogna i depositari dell’istruzione trasformata in pillole, numeri e isolamento. Non c’è alcuna innocenza nell’aver perseguito un tale impoverimento e affidato i nostri ragazzi ai messaggi ammiccanti del successo a portata di mano grazie ai suggerimenti di venditori di immagini alla moda.
Si può fare. Anche se non a tutti è concesso. E allora si può essere qualcuno con gli stessi tatuaggi, i corpi esibiti, i soldi fatti magari col recupero crediti della droga e la stessa capacità di spendere la vita vendendosi al mercato dell’esibizione di più basso livello. Con le buone o con le cattive. È così che lo spettacolo può finire nell’orrore. Per un’occhiata storta, per una battuta provocatoria, per un frainteso senso di padronanza sul corpo di una ragazza o semplicemente per ribadire la propria esistenza in vita. Succede. Fino alla violenza omicida. Di notte, in un luogo di ritrovo di giovani tiratardi che finalmente possono riconquistare socialità e allegria, in un paese che è stato il mio.
Un paese dove sono nata e cresciuta. Nel paese-fabbrica dove ho conosciuto la diseguaglianza esibita, la vita sociale funzionale alla produzione, l’ipocrisia bigotta, l’ostilità al cambiamento, al netto delle spacconate da goliardia mentre, a pochi chilometri, il vecchio mondo cominciava ad andare in frantumi a valle Giulia. Ma dove gli annunci di morte erano quelli degli ululati della sirena fuori dall’orario dei turni di lavoro. Per una fuoriuscita di gas in eccesso o per lo scoppio di detonanti in lavorazione.
Nella cancellazione della memoria dei tempi in cui l’assassino era quello degli agguati della fabbrica che esplodeva, può accadere che il nemico di oggi non sia più identificato con chi decide delle nostre vite ma con uno della stessa età, magari meno guastato e ancora capace di sorridere, saper stare in compagnia, condividere passioni con i coetanei. Uno che si preparava ad affrontare la vita da adulto con un mestiere imparato. Non un emarginato in cerca di menare le mani. Morto solo per essersi trovato nel luogo sbagliato e non essersi voltato dall’altra parte difronte a un amico in pericolo. Anche in condizioni di evidente divario di forze. Episodi di violenza sempre più frequenti tra giovani che escono di casa perché il sabato si fa. Che si incontrano per caso e si scontrano per gruppi di appartenenza.
Salto epocale. Dalla rivoluzione, alla rivolta, al traguardo di visibilità sociale quale che sia. È successo in un paese in cui i dipendenti di Amazon hanno sostituito gli operai della fabbrica. Da produttori a precari fornitori di merci, tutto in un lampo. Pacchi tra milioni di pacchi a indicare la miseria della nostra abbondanza di consumo a bassa conflittualità, mansioni alienate con tracciamento al minuto dei ritmi e fasi lavorative fissate da un algoritmo che ragiona con i numeri. L’istituto tecnico che preparava a lavorare di tornio è stato spostato. E, come sempre, l’immagine vale più di un trattato economico adesso che l’edificio non sta più difronte ai cancelli chiusi dello stabilimento ma a quelli della più grande azienda di commercio on line, con casa madre statunitense. Per preparare a non perdersi nell’immenso magazzino in pause non ammesse. Tutto questo non fa allarme, né titoloni di cronaca. Nell’isolamento spinto di lavoratori e consumatori come nuova cifra della risoluzione delle relazioni sociali nella simulazione virtuale. Sepolti dalla memoria i tempi in cui proprio dal vecchio istituto professionale uscirono i ragazzi per fare un’inchiesta tra gli abitanti del paese sui temi che più ne hanno caratterizzato la storia. La migrazione, il duro lavoro, l’alta pericolosità di quelle produzioni, il degrado ambientale, lo sfilacciamento del tessuto sociale, le marcate differenze di condizioni. Un racconto orale di straordinaria comunicazione collettiva, di intrecci di esperienze tra generazioni, di esercizio di un sapere critico al servizio della crescita di coscienza del proprio avvenire e del cambiamento necessario. Un modo di vivere l’istruzione non piegato agli interessi del profitto, quello che oggi è chiamato merito. Di fare conoscenza, società, solidarietà, comunanza. Una storia delle proprie origini per bocca dei diretti protagonisti, fuori dalla retorica dei miti del progresso. Cos’è rimasto di tutto questo nei decreti ministeriali che hanno scambiato l’istruzione con la formazione tecnica, penalizzato le materie letterarie, ripristinato l’insegnamento frontale, aumentato l’evasione scolastica, immesso l’esercitazione al lavoro precario e gratuito? Non ultimo incrementato le sempre più numerose incursioni didattiche di forze di polizia e militari nelle scuole e le visite guidate delle scolaresche fin nelle basi Nato?
Domande che risuonano addirittura eversive in questo scenario di irreggimentazione delle menti a scapito della creatività e della distinzione dei giudizi.
Che è successo? Perché non siete intervenuti per difendere Willy? chiedo a chi c’era. A uno dei tanti in quel posto di ritrovo del sabato sera. Anche lui un impasto di strafottenza e fragilità, come sempre a quella età. Mi dice che è cominciata con una lite, parole di sfida e qualche spintone. Sembrava tutto finito quando sono arrivati «quelli». E tutto è cambiato. Quelli sono picchiatori esperti e con furia improvvisa attaccano chiunque capiti a tiro dei loro pugni e calci. Ma perché proprio Willy? Nessun motivo se non perché era lì, nel loro raggio di azione. Con qualche colpo marziale fanno a pezzi il suo corpicino e se ne vanno così come sono venuti. Forse neanche si accorgono dell’irreparabile che si lasciano alle spalle, come sempre agisce la banalità del male. Arrivati e andati via in un tempo da niente. Riconoscibili e riconosciuti e subito arrestati. A loro modo famosi.
Neanche la tragedia offre materia di riflessione adeguata. I ragazzi, belli e brutti, continuano a essere sconosciuti e inascoltati, persino difronte all’aumento del numero di loro che non ce la fanno a competere e scelgono di suicidarsi. In un mondo assuefatto al giudizio scontato esplode la riprovazione, la presa di distanza e la gara dei provvedimenti possibili. Si mostrificano i responsabili, come completamente alieni dal corpo sano dei bravi cittadini. Si invoca il daspo per i frequentatori violenti dei locali. Si chiede la testa dei proprietari di palestre di discipline marziali. A spiegazione dell’efferatezza si ricorda persino l’antica tradizione di brigantaggio del paese di provenienza degli assassini. Ma non si prende in causa il dilagare di una atmosfera di morte che si è come disincarnata, alleggerita della consistenza dei corpi. Numeri tra gli altri. Tanta l’indifferente assuefazione alla sorte dei lasciati affogare in mare, dei rischi letali nei posti di lavoro, della strage silente nell’isolamento delle mura domestiche, dei pestaggi e dei decessi in carcere, fino alla morte dei ragazzini dell’alternanza scuola-lavoro. Fino alla condanna alla morte civile in carcere per chi alla sopravvivenza oppone reclamo alla vita.
Come se ci fosse un solo modo per ammazzare qualcuno, scriveva il compagno poeta. Come se dalle impalcature non precipitassero al suolo anche ultrasettantenni, grazie all’approvazione di una legge che lo consente. L’innocenza di un tratto di penna che il codice penale non considera reato. Almeno secondo la giustizia dell’utile del più forte. Sempre per il bene dell’economia del paese. O per la sicurezza e il decoro delle nostre città ridotte a discariche e zoo safari ma con le panchine munite di ferri divisori perché non ci possa dormire qualche senzatetto cacciato dalle stazioni ferroviarie diventate centri commerciali. Inezie, nel migliore dei mondi possibili che corre satollo verso l’ennesimo massacro. In cui si può incappare senza un apparente motivo nell’impulso omicida di chi non sa contro chi trasformare la rabbia in coraggio di battersi contro il furto del suo futuro.