Mustafa Tamimi lanciava pietre. Senza nessuna apologia ed a volte senza nessuna paura. Non lo ha fatto solo quel giorno e non lo faceva nemmeno tutti i venerdì. Si celava il viso. Non per paura della galera, che aveva già avuto modo di conoscere dall’interno, ma per preservare la sua libertà, per poter continuare a lanciare pietre e resistere al furto della sua terra. Ed ha continuato a farlo fino al momento della sua morte.
Il giornale britannico The Daily Telegraph, riporta una dichiarazione presa dal profilo twitter del portavoce del Comando Militare Meridionale israeliano in risposta ai resoconti sulla morte di Tamini: “A cosa stava pensando mentre correva dietro ad una jeep in movimento mentre lanciava pietre se non al fallimento”. Così, semplicemente e beffardamente, il portavoce ha spiegato perché Tamini era da biasimare per la sua stessa morte.
Mustafa Tamimi, del villaggio di Nabi Salih – figlio di Ikhlas ed Abd al-Razak, fratello di Saddam e Ziad, dei gemelli Oudai e Louai e di sua sorella Ola – è stato colpito alla testa da breve distanza durante la manifestazione di venerdì 9 dicembre. Ore più tardi, alle 9.21 di sabato, è morto per le ferite riportate. Una granata di lacrimogeno gli è stata sparata contro da una distanza di pochi metri da una jeep militare corazzata. Non è stata la paura ad armare la mano di chi lo ha colpito. Chi ha infilato la canna del fucile attraverso la porta del veicolo corazzato ed ha sparato, lo ha fatto con chiaro intento. Il tiratore è un soldato. La sua identità rimane sconosciuta e forse non sapremo mai il suo nome. E forse è meglio così. Identificarlo e punirlo servirebbe solo a coprire i crimini di un intero sistema. Come se l’indifferente cittadino israeliano, il sergente, il comandante della compagnia, il comandante del battaglione, il comandante di brigata, il comandante di divisione, il ministro della difesa ed il primo ministro non avessero preso parte alla sparatoria.
E allora è proprio come dice il portavoce dell’esercito. Mustafa è morto perché tirava pietre; è morto perchè osava dire una verità, con le sue mani, in un posto in cui la verità è proibita. Qualsiasi discussione sulle modalità della sparatoria, sulla sua legalità e sull’ordine di aprire il fuoco, presuppone un padrone di casa a cui è impedito di poter cacciare l’invasore. Infatti l’invasore è autorizzato a sparare sul padrone di casa.
Il corpo di Mustafa giace senza vita perché egli ha avuto il coraggio di lanciare pietre nel giorno del 24° anniversario della Prima Intifada, che ha generato i bambini palestinesi delle pietre. Suo fratello Oudai è rinchiuso nel carcere di Ofer e non gli è stato permesso di poter partecipare ai funerali, perchè anche lui è uno che aveva osato lanciare pietre. Ed a sua sorella non è stato permesso di potergli stare accanto negli ultimi istanti, e non perché fosse sospettata di aver lanciato pietre, ma solo perché lei è una donna palestinese.
Mustafa era un uomo coraggioso, ucciso perché lanciava pietre e non aveva paura dei soldati armati e seduti al sicuro nelle loro jeep militari corazzate. Il giorno in cui è morto Mustafa, la valle è stata attraversata da un silenzio il cui gelo era inferiore solo agli striduli lamenti della madre di Mustafa, che si levavano di tanto in tanto.
Migliaia di lanciatori di pietre hanno partecipato al funerale. E’ stato deposto nella tomba di famiglia e le pietre hanno parlato.