Questa è davvero una stagione propizia per riavvicinarsi all’opera di Domenico Rea. Il meritorio volume mondadoriano, apparso solo qualche anno fa e curato con la migliore competenza da Francesco Durante (Rea 2005a), ha avuto il merito di riproporre con forza la questione di uno scrittore aspro e addolorato, tesocome una lama dentro le ferite perennemente aperte nel corpo di Napoli e delle creature che sono in questa città. «Creature» non è un termine ovvio, patetico elogorato. Si tratta, anzi, di una parola solenne: particolarmente cara allo scrittore di
Spaccanapoli e da riascoltare nella giusta intensità che essa conserva. Proprio Rea invitava a riscoprire nell’etimo da cui deriva la dimensione primitiva di qualunque essere, appena uscito dalle mani del Creatore e difeso dall’unica, esile protezione della propria carne. Napoli, nella evocazione di Rea, diventa «questoluogo oscuro e infernale, dove gli uomini si chiamano “vermi” e i bambini “creature” (questo termine dà precisa l’idea di un corpo umano indifeso e appenarivestito di un fragile velo di carne)» (Rea 2005b: 1342). Questa natura prima, perennemente viva e dolente, è un elemento centrale nell’intera opera dello scrittore di Nocera. Essa agisce con la legge dei propri impulsi, con il furore di appe-titi eterni, con la violenza innocente di bisogni «animaleschi». Il mondo di Rea è, in questo senso, un mondo arcaico e antico. E il napoletano che respira la vita dei suoi giorni, «uomo stranamente primitivo, […] oggetto di amore pieno, senza vergogna, carico del concetto pagano del godimento che è la vita in atto»(Rea 2005b: 1337), è descritto «in questo momento di grandiosa solitudine e dimeditazione sul suo destino» (ivi: 1339).
Le passioni restano feroci come nel primo giorno della vita. Ignorano la storiache si muove, che muta pelle. Questa Napoli città-mondo continua ad avere dentro di sé, nei vicoli del suo sottosuolo, una materia infetta, che sfugge a qualun-que terapia. Nei luoghi bui di un tempo senza divenire resiste, mai dissolto, uninvincibile orrore, un grumo di violenza e di pena. Uno strazio tremendo oscurala luce dell’esistenza, lasciando tracce continue della sua presenza eterna. Così può accadere che in «una delle più antiche viscere di Napoli […] uno, che finge di non saper che vive nel Duemila, pensa di stare in pieno Seicento» (Rea 1987:59); altrove Rea cambia il secolo, ma lo sfalsamento dei secoli resta il medesimo: «“Siamo noi” disse Igalo; in questa Napoli del Settecento prolungatasi nel Duemila» (ivi: 74). Un’altra vita scorre sotto il velo di qualunque ennesima illusione di « sorti magnifiche e progressive ». E questa vita è il tema stesso dellaautentica raffigurazione di Napoli.
Rea ha mantenuto una sostanziale fedeltà all’archetipo di una città feroce e crudele, eppure perpetuamente viva. Dai racconti iniziali fino alle ultime paginedella sua opera ha continuato a dare forma e voce a una realtà immobile, ugualea sé stessa. Dentro i suoi confini si muovono creature in preda a bisogni e a istinti, condannate a sentire la tremenda potenza di entrambi. Come si sa, Rea non ha scritto solo racconti o romanzi e testi teatrali, ma è stato anche un acuto e potente saggista. Una parte cospicua dei suoi interventi è confluita in due volumi, in qualche modo l’uno contiguo all’altro. Si tratta de Diario napoletano (Rea 1971) e dei Pensieri della notte (Rea 1987), raccolta di articoli apparsi sul Mattino e stampati per la prima volta da Rusconi. In particolare i Pensieri dellanotte meritano un’attenzione specifica per la loro peculiare natura. Proprio nella costruzione di un’opera come questa Rea prova a mettere insieme tutti gli aspetti della sua fisionomia artistica: il saggista originale e coraggioso, il celebrato autore di racconti e il meno apprezzato costruttore di romanzi. Soprattutto in rapporto a tale prospettiva, il testo offre una marcata originalità che merita di essere definita.I Pensieri della notte , infatti, fondono due tratti dell’esperienza di Rea, spesso pensati in antitesi tra loro: il romanzo e il racconto. Come se l’abilità prima,riconosciuta immediatamente da tutti i lettori, di saper offrire magnifiche storie brevi, avesse pesato sulla capacità di ordire romanzi, dotati di uno sviluppo piùlento e articolato. Quando organizza il suo nuovo testo, Rea, tuttavia, allestisceun romanzo di specie tipica. Lo costruisce utilizzando frammenti distinti, autonomi, che tuttavia non restano indipendenti. Si richiamano l’uno con l’altro, sisuccedono in progressione lineare, si combinano in modo da comporre un unico sistema. Questo sistema costituito di unità autonome deriva dalla naturadell’opera e dalla sua genesi. I singoli pezzi, si è già anticipato, erano in originearticoli scritti per il «Mattino». Questi interventi, tuttavia, ora sono ripresi comecapitoli consecutivi di una organica narrazione. Il libro che nasce acquista, attraverso la sequenza stabilita dallo scorrere degli eventi e in forza della compiutez-za supplementare che la storia guadagna, un pregio autosufficiente. Si presentasotto specie di un’unità fatta di cellule distinte ma affini, che tutte insieme com- pongono un organismo a sé. Si può sostenere paradossalmente che si tratta di unromanzo fatto di racconti. Questa formula, che sembra descrivere un curioso az-zardo, identifica, invece, una specifica avventura del linguaggio edell’immaginazione.Il risultato ottenuto diventa un modo preciso di raccontare Napoli. Prima ditutto, riproduce, con la sua tessitura variata, la forma plurale, stratificata ed ete-rogenea, che la città ha. I Pensieri della notte costituiscono, infatti,un’esplorazione del corpo di Napoli. Ne disegnano l’identità fatta di luoghi mol-teplici e perfino reciprocamente incompatibili. Mostrano i destini differenziatiche popolano il suo spazio, ciascuno con la sua incomparabile storia.Perché ? Il protagonista di queste avventure si muovetendenzialmente quando la città sprofonda nel buio e solo allora sembra vicina asvelare un’altra sua identità. La notte altera la rappresentazione ordinaria dellecose. Scompiglia l’automatismo regolare dello sguardo e fa emergere una se-conda realtà: un volto ancora più cupo e sfigurato, o, al contrario, sorprendente-mente pacificato. In questo tempo capovolto in cui si abitua a muoversi il protagonista-scrittore, testimone ed osservatore, esce di casa. Segue, in compagnia dialtri picari inquieti come lui, itinerari anche comuni, che tuttavia di giorno sonointransitabili e ostili. Si muove attraverso luoghi, spazi, paesaggi che appaionoora, nel ribaltamento delle abitudini, secondo una prospettiva ignota. I pensieri,nell’ordine del libro, si succedono numerati uno dopo l’altro. Ciascuno di essicontiene il resoconto di un’avventura accaduta. Tutti insieme danno forma a unasorta di enciclopedia delle esperienze possibili a Napoli: comiche, grottesche,esilaranti, folli o dolorose. Può perfino accadere che la stessa «Napoli, che di giorno sembra l’intruglio di un pacco intestinale, fra l’alba e l’aurora è una cittàlieve e sospesa. Sta più in alto del mare. Il Vesuvio e il Faito si potrebbero acca-rezzare come due pecore. Le navi in porto, con i lumi accesi, si stagliano sul cielo. Fanno pensare ad avventure ai confini del mito» (Rea 1987: 31-32). Quasil’epifania di un altro mondo, un mito luminoso, estraneo alla pesantezzaquotidiana di patimenti e di ripetute aggressioni . Questo mito pure esiste, na-scosto sotto la superficie diurna di una patologia diffusa e normale, propagata da«macchine e lanzichenecchi» (ivi: 13), che sono gli esclusivi padroni del giorni.
– continua-