Come odo stormir tra le fronde degli alberi smorti il vento flebile di Salerno, così la mia paziente sottomissione anela alla fine di questi giorni pietosi e grevi.
Neppure gli uccelli oggi osano intonare la loro canzone dolce al cospetto di cotanta acredine radicata negli animi inariditi di megere vetuste e senza più voglie.
Il mare calmo sembra suggerirmi di far come lui: ritirare in modo blando le onde verso il largo e altre sponde.
Le nuvole financo sono scomparse, per pudore, dal celeste cielo della bella città e il sole è un fratello fidato che auspica il mio trionfo, che è quello del bene sul male.
Resta l’amarezza della non comprensione di azioni, sguardi, parole di superbia, di ingiustificata spocchia, di falsa superiorità morale e professionale: invano tentano di avvizzire il mio essere, come una valanga di letame vorrebbero travolgere animi puri e fiori inebrianti.
La bellezza dei luoghi è in antitesi con il lerciume di talune genti che anziché esserne per così dire contagiate, ne restano contaminate come un virus letale che appesta e stermina, avviluppate, incrostate, irrimediabilmente impoverite.
Annalisa Capaldo