In scena al teatro Bellini di Napoli (fino al 4 febbraio) lo spettacolo Agosto a Osage County, diretto da Filippo Dini, produzione del teatro Stabile di Torino, è un modo di raccontare aspetti e dinamiche emotive, psicologiche della contemporaneità. Un modo per far riflettere: il pubblico non può che uscire da teatro invischiato in tutti quei sentimenti, per lo più negativi, che spesso nella dimensione familiare inquinano un qualsiasi progetto di felicità.
STORIA TERRIBILE DI UNA FAMIGLIA
Si tratta di uno spettacolo scomodo, perché racconta la storia complessa di una famiglia, le nevrosi dei suoi componenti, le difficoltà, una dietro l’altra, delle relazioni. Ma nello stesso tempo si tratta di uno spettacolo che ha il merito di aprire un varco nella separazione tra la finzione teatrale e la sincerità del vero, uno squarcio percepito perfettamente dallo spettatore: non a caso partecipa tra risate, commenti e sospiri durante e dopo lo spettacolo, ammettendo di riconoscere quelle dinamiche. Merito di un testo che non per niente valse a Tracy Letts un premio Pulitzer nel 2008. Merito della messa in scena di Filippo Dini e degli attori tutti che riescono, con il loro ritmo, a ricostruire la credibilità della storia. Agosto a Osage County solleva con forza i veli che spesso nascondono i cancelli nati da una vita in cui al tradimento si somma il non-perdono, il far finta di niente, la perdita di speranza e una vita di formali finzioni. All’affetto si sostituisce il sottile lamento di una cattiveria che diventa sarcasmo, che diventa contrasto, ferita, litigio, disarmonia. I salti generazionali vengono invasi da questi segni di incomprensione che, solo alla fine, si capisce esser stati causati da una delusione tanto profonda quanto mai affrontata, mai risolta.
La storia complessa, negativa, lunga non annoia grazie al suo passare da un colpo di scena all’altro, in cui, dettaglio dopo dettaglio, si compone un puzzle. Lo spettacolo inizia e si chiude con le citazioni della poesia Gli uomini vuoti di E.T. Eliot, inizia e si chiude nel nome di Beverly Weston. E’ lui, ex professore, alcolista e poeta, che apre la pièce proprio con le parole della poesia mentre tiene un colloquio con Johanna, indiana ( o meglio nativa americana), che assumerà come governante per gestire la casa e aiutare la moglie Violet, malata di cancro alla bocca, dipendente da psicofarmaci e da sigarette. Quasi fosse il suo alter ego, quando lui sparirà, sarà lei Johanna a prendersi cura di tutti, con i suoi pranzi e con i suoi gesti di protezione, e saranno le sue parole, citazione della stessa poesia Gli uomini vuoti di E.T. Eliot, a chiudere il cerchio, nella scena finale, mentre ha tra le braccia Violet, abbandonata da tutti. La scomparsa di Beverly, uscito e mai tornato (poi si scoprirà annegato e forse suicida) è la causa della riunione di famiglia e delle esplosioni di tutte le finzioni.
LA LUNGA E INGARBUGLIATA STORIA DELLE DONNE DI FAMIGLIA
Quella che viene raccontata con dovizia di particolari realistici, riconoscibili, è la sottile cattiveria, tra la voglia di rivalsa e l’incapacità di perdono, che prende forma nelle donne di famiglia. Innanzitutto di una madre come Violet (una profonda Anna Bonaiuto) sarcastica, violenta e pronta a ferire tutti con la sua pretesa di ‘verità’. Lei domina le situazioni, è una a cui non sfugge niente, per la sua sensibilità, e passa da momenti di lucidità ad altri di totale assenza, dipendente qual è da psicofarmaci. Piano piano si vede spogliarsi di tutti gli infingimenti fino a toccare la sua essenza. Una donna le cui figlie hanno in comune la necessità di proteggersi dalla incapacità di ‘amare semplicemente’ di Violet. Tre generazioni di donne si tramandano questo modo pungente di generare senso di colpa, e giudizi che non risparmiano contraccolpi: Barbara (Manuela Mandracchia) la prima figlia di Vaiolet che fa mostra di un matrimonio felice e invece si scopre che sta per separarsi da Bill decretando il suo fallimento (è l’unica che tiene testa alla madre), le sorelle Yvs, rimasta a casa con Violet da cui viene considerata la figlia incapace di avere un uomo (e poi si scopre che invece ha una relazione con suo cugino Littel Charlie, che si scopre essere il suo fratellastro) e Karen che finge la gioia di un amore e di un futuro matrimonio, tanto auspicato, con Steve, un uomo che palesemente ama, più che lei, dedicarsi al fumo, alla ricchezza e a tutte le donne (addirittura prova ad approfittare della figlia di Barbara con la scusa della marijuana). La sorella di Violet, Mattie Fae, non è da meno: dall’aspetto euforico è in costante conflitto con il figlio, Littel Charlie, che per lei è una delusione continua come non smette di ribadire in ogni istante. E poi c’è la generazione successiva, rappresentata da Jean isterica, adolescente cresciuta in un clima di violenta disaffezione: nei suoi quattordici anni può già vantare esperienza di fumo di sigarette e non solo, e la solida e costante convinzione di doversi difendere da sua madre, unico nemico anche quando a usare violenza nei suoi confronti è lo ‘zio’ Steve.
GLI UOMINI COME POESIA E AMORE
Diversi invece sono gli uomini che risultano essere capaci solo di poesia e tradimento. Come Bill (un efficace Filippo Dini) che tradisce e lascia Barbara, troppo regole e condotta, per una giovane studentessa dei suoi corsi simbolo di apertura e libertà. Come Charlie (marito di Mattie Fae) l’unico che sembra capire, accettare l’umanità di questo ingarbuglio di fili con ottimismo e prende le distanze dal mondo femminile della famiglia (“questa cattiveria io non la capisco”) minacciando la moglie di lasciarla se continua a trattar male il figlio Little Charlie. Come Steve (compagno di Karen) dedito solo a potere, soldi, donne e droga. Come Littel Charlie, figlio di Mattie Fae, che sembra un inetto, incapace nei suoi gesti, che addirittura non arriva in tempo al funerale dello zio, ma invece è capace di un amore segreto per Yve che manifesta anche nello scrivere canzoni, poesie in musica. E soprattutto come Beverly, uomo di poesia e di buoni propositi, alcolista di mestiere che lascia la casa fino al suicidio, per forse espiare il più gran dolore, un immenso e silenzioso senso di colpa che, goccia dopo goccia, gli logora la vita: ha tradito sua moglie con la sorella Mattiae Fae con cui ha concepito un figlio Littel Charlie. Pian piano il segreto di questo terribile tradimento esce fuori, l’unica che non lo sa è Yve che pensa di scappare con quello che pensa essere suo cugino ma che sua madre Vaiolet non manca di rivelare essere il suo fratellastro.
VIOLET E BARBARA
La violenza raggiunge l’apice quando Barbara, che in qualche modo decide di prendersi cura della madre Violet sempre pronta a instillare il lei senso di colpa, apprende dalla stessa madre che in realtà che ha omesso di parlare della lettera in cui il padre Beverly, già scappato di casa, le chiedeva di contattarlo mentre era in un motel. Solo che Violet ha preferito aspettare il primo giorno utile per ritirare prima i loro beni contenuti in una cassetta della banca (evitare le tasse in caso di scomparsa), e lo ha contattato quando già era tardi. Barbara comprende fino a che punto la responsabilità del suicidio del padre sia di sua madre, anche se malata e confusa da dipendenze, macerata dal dolore del tradimento del marito. Così Barbara decide di smettere di aiutare adisintossicarla, ma le restituisce le pillole da cui è dipendente per lasciarla alla fine certa, e va via, lasciandola al suo destino.
Tutta la pièce ruota sulla coppia principale Violet – Barbara, sul loro altercare. Interpretate magistralmente da Anna Bonaiuto e Manuela Mandracchia che riescono a dare voce credibile alla complessità sentimentale, emotiva dei loro personaggi. I tremori del corpo e della voce di Vaiolet sotto effetto dei psicofarmaci, la fierezza di Barbara piano piano durante lo spettacolo si trasformano: si sollevano i veli emotivi che coprivano la verità che viene a galla. Tutto questo mondo di sofferenza nasce da un solo fatto: il tradimento di Beverly con la sorella di Violet, la nascita di un figlio illegitto, il far finta di niente e non affrontare ( se non nelle fughe delle dipendenze) la situazione che logora la vita della madre, del padre e di conseguenza di tutta la famiglia.
CREDIBILITA’ E RITMO
Tutti gli attori in scena Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia, Filippo Dini, Fabrizio Contri, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Fulvio Pepe, Stefania Medri, Valeria Angelozzi, Edoardo Sorgente, Caterina Tieghi e Valentina Spaletta Tavella riescono a tenere il carattere del loro personaggio e manifestarlo, renderlo credibile, senza appesantire lo spettacolo, nonostante l’ingarbugliata negatività della situazione. Merito anche della regia di Filippo Dini, in scena anche nel personaggio di Bill, che crea un ritmo di battute, movimenti in cui la tensione viene spezzata dall’ironia, dal sorriso, fino all’inserimento di un vero momento musicale, legato alla canzone ideata da Littel Charlie, che ha un sapore quasi catartico. Il ritmo efficace viene aiutato anche dalla scenografia, semplice, fatta di stanze movibili, che si spostano di scena in scena e distribuita su due piani, che permette anche di condividere contemporaneamente situazioni diverse, creando leggerezza e immediatezza.
In questa versione teatrale non si sente, come nel film realizzato sulla stessa storia da Jhonn Wells con la sceneggiatura dello stesso Tracy Letts con Maryl Streep e Julia Roberts, l’aria delle campagne dell’Oklahoma, ma l’universalità di certe distruttive dinamiche insite nella realtà borghese della nostra epoca, nate dalla trasformazione della precedente condizione di povertà al limite di sopravvivenza.