Un carteggio, un sogno, una realtà che si allontana sempre più dal “vero”. È la storia di Salvatore, protagonista di “Fine pena: ora”, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Elvio Fassone per la regia di Simone Schinocca, con la partecipazione di Salvatore D’Onofrio, Costanza Maria Frola e Giuseppe Nitti. Lo spettacolo è andato in scena venerdì 2 Febbraio nell’ambito della rassegna “L’Essere & L’Umano” dell’associazione Artenauta Teatro al Teatro Diana di Nocera Inferiore, per la direzione artistica di Simona Tortora e il coordinamento di Giuseppe Citarella.
Appena si giunge in platea si è già nel vivo della narrazione: una figura si agita di tanto in tanto, distesa su una panca, mentre un sottofondo musicale accompagna gli spettatori alla prima rivelazione. Una scenografia fatta di corde suggerisce che il protagonista si trova all’interno di una gabbia reale e metaforica, nella quale entra quasi senza rendersene conto, costretto a maneggiare armi fin dall’adolescenza e senza mai conoscere qualcosa di diverso.
Se in un primo momento lo “schieramento” dello spettatore è abbastanza lineare – ogni reato ha la sua condanna, l’ergastolo è una pena adatta per ripagare quindici vite – con il procedere dello spettacolo si inizia a porsi il dubbio che gli schemi e i ragionamenti che valgono in un mondo “di fuori” non sono gli stessi che valgono all’interno del sistema carcerario. Salvatore, il protagonista, cerca redenzione attraverso piccoli atti di riscatto come il conseguimento di diplomi pratici, come un diploma da giardiniere, e soprattutto cercando un dialogo con il giudice che lo ha condannato. Il giudice si presenta come uomo distinto, algido, un narratore affidabile perché rappresentante di giustizia. E così, lo stesso uomo che ha firmato una condanna inizia a porgere uno, due, tre rami d’ulivo che vengono accolti da Salvatore con impegno e anche con una certa ironia che lascia spiazzato il giudice – che si ritrova a sua volta ad apparire quasi buffo nell’interazione con Salvatore, che lo spiazza con le sue massime.
Un gioco di equilibri rappresentato sulla scena da corde, alcune delle quali vengono sciolte per simboleggiare sia il trascorrere inesorabile del tempo – una rappresentazione suggestiva dei classici “graffi” sui muri con i quali i carcerati nell’immaginario comune contano i propri giorni di detenzione – e sia l’essere legato. Legato alla dimensione temporale di quando Salvatore è entrato in carcere (al suo primo permesso c’è già stato il cambio lira-euro), legato all’idea che una persona nata e cresciuta in un ambiente con delle dinamiche precise sia destinato a farvi parte per sempre, legato a pochi capisaldi per non impazzire. E poi ci sono i significati più tetri della corda – la catena, il cappio – come spada di Damocle che pende costantemente sul capo di Salvatore.
Anche i rapporti umani sono uno specchio distorto della normalità: la giovane fidanzata di Salvatore, diventata tale quando era fin troppo giovane per comprendere le conseguenze di una relazione con un uomo adulto, viene raccontata attraverso il suo pellegrinaggio di vedova bianca.
Il personaggio del giudice sembra rappresentare non soltanto la giustizia canonicamente intesa, ma forse rappresenta anche l’uomo di tutti i giorni messo di fronte alla verità di un sistema che non considera i suoi membri come pienamente umani. Più passano gli anni, più Salvatore si avvicina ad una forma (pur limitata) di riacquistata libertà, più cresce la consapevolezza che un passo falso può resettare in un attimo ogni sforzo profuso per dimostrare che si può tornare in contatto con la società.
La scelta musicale – una variazione sul tema di un’unica canzone, “What a wonderful world” – in più momenti sembra irridere il protagonista, costringendo lo spettatore a confrontarsi con un dilemma che è sempre comodo non affrontare per restare attaccati ad un’idea semplice di pena e condanna.
Chi sono le persone nelle carceri? Dopo quanto tempo si può riacquistare lo status di membro funzionante della società? Quale il limite da non oltrepassare per restare nel contesto della giusta pena?
Ma soprattutto, quanto tempo impiega la mente umana a piegarsi, rimossa dalla più naturale condizione di “socialità” – che continua ad esistere anche nel luogo del crimine?
Lo spettacolo non pretende di dare una risposta, men che mai una risposta certa, perché come tutte le forme d’arte si rimette alla riflessione dello spettatore. Ma “Fine Pena Ora” lascia lo spettatore profondamente diverso da come entra in sala, e lo fa con un connubio di leggerezza e solennità distillato nelle scelte di regia pulite ed essenziali.