Capitolo undici
Un nuovo inizio
Ero ritornata nella Pianura Padana, ma non eravamo più in quattro; nel mio grembo stava nascendo una nuova vita, quasi insperata. Ebbene sì, io e mio marito avevamo concepito, desiderandolo, il nostro terzo figlio, mentre eravamo in isolamento per il Covid contratto durante le festività natalizie al Sud, a casa. Ci avevamo provato sì e no una decina di volte e subito ero rimasta incinta, nonostante i miei 43 anni suonati. Del resto ero sempre stata fertilissima, anche coi primi due era andata allo stesso modo. Ma ora era diverso: questo figlio sapeva di rinascita, di un nuovo inizio.
Salita a Trezzano sul Naviglio, però, mi sentivo in dovere di parlarne con colui il quale mi aveva fatto capire cosa desiderassi davvero. Ci eravamo rivisti e lui aveva tentato di baciarmi: lo avevo allontanato, gli avevo detto che aspettavo un figlio e non era certo il suo. All’inizio sembrava non gli importasse di chi fosse, tentava ancora di convincermi che io e lui avremmo potuto vivere insieme, come una famiglia. Pensavo fosse completamente impazzito. Me lo ritrovavo sotto casa, al parco del Centenario ove andavo a passeggiare da sola, ascoltando musica. Ero a riposo dal lavoro, potevo finalmente godermi il Nord, i suoi laghetti malinconici, gli alberi e gli animali che al Sud non c’erano; gli scoiattoli numerosi, le nutrie coi loro cuccioli si lasciavano trasportare dal Naviglio, le cicogne, gli aironi cinerini. Volevo solo la serenità che adesso stavo finalmente assaporando, senza lo stress di un lavoro che non mi piaceva, di uno “sbatti” che mi aveva provocato ansia ed ipertensione, lacrime e scoramento. Ora finalmente potevo godermi quei cieli che mi sembravano più vicini che al Sud, i tramonti rossi, fuxia e le albe viola e scarlatte: mi sentivo responsabile per la nuova vita che portavo nella pancia, non volevo più fumare, anzi mi dava fastidio l’indifferenza del milanese se lo faceva in mia presenza: non era l’uomo che avevo sperato all’inizio; a lui non interessava né di me né della mia creatura. Il suo era mero egoismo, smania di non perdermi, bramosia di possesso, certamente era inorgoglito di stare vicino alla direttrice di una scuola, ad una docente apprezzata di greco e latino: ma ciò che avevo raggiunto mi era costato sacrifici, lacrime, momenti di follia pura, oltre ad anni di studio matto e disperatissimo.
Così mi ero decisa a dirgli di non cercarmi più e lui infuriato aveva fatto una scenata, spaventandomi. Dal mese di marzo di quello che mi sembrava ancora inverno, avvolta nella nebbia, gli avevo definitivamente detto addio e non avrei mai immaginato che meno di un anno dopo lui sarebbe morto, per un infarto.
Quando venni a conoscenza di questa notizia rimasi interdetta: ricordo che mi trovavo al mare, vicino casa, nel mio amato Sud, ove ero ritornata con la mia famiglia. Il mio terzogenito, nato a settembre, bello come il sole, mi aveva ridato la voglia di vivere. Certamente non era stato semplice partorire col primo cesareo della mia vita e a pensarci bene voluto esclusivamente per paura: poi l’allattamento, la stanchezza, la depressione post partum. Quella sera non la dimenticherò mai: in riva al mare col mio neonato tra le braccia appresi che Ivan era morto, sul colpo, cadendo dalla sua bicicletta, con Lord, il fedele cane, che avrà pianto disperato.
Mi sentivo in colpa, forse gli avevo spezzato il cuore, abbandonandolo a se stesso, togliendogli la speranza dell’amore, di una vita diversa: in fondo gli avevo donato pochi attimi di felicità per poi levarglieli tutti in una volta. Ero tornata a casa mia, abbandonandolo nella nebbia, scappando senza voltarmi indietro, senza salutare nessuno, in fretta e furia, col mio pancione e mio marito.
Non volevo neppure più pensare agli anni vissuti su, al dolore che spesso mi attanagliava, mi sentivo un’egoista: io ero viva e lui era morto e non l’avrei mai più rivisto. Forse adesso avrebbe trovato la pace che su questa terra gli era mancata ma non potevo smettere di pensare che gli avevo spezzato il cuore.
Annalisa Capaldo