Il tempo ciclico della storia e delle storie è la premessa da cui si muove “Troiane”, primo spettacolo della compagnia Artenauta Teatro nell’ambito della rassegna “L’Essere e l’Umano”, in scena al Teatro Diana di Nocera Inferiore.
Per la regia di Antonello Ronga, il gruppo di attori scelti non ha portato sul palco solo un adattamento sperimentale del testo della tragedia di Euripide, ma come tipico della tradizione Artenauta si mescola al testo antico un elemento moderno e contemporaneo. Sono più che contemporanei i costumi, che rimandano alle tragedie in corso nel mondo, si parla di guerra da più prospettive, anche vicine alla storia d’Italia con le lettere dei soldati in trincea documentate durante il primo conflitto mondiale, e i versi di poeti che hanno portato nel cuore e nelle scanalature del cervello i segni di un orrore molto più prossimo di quanto sia comodo credere in un contesto privilegiato.
Il coro delle troiane esuli è un coro tragico dal quale escono, interpretate da più attrici, personaggi meno cantati dell’epica come la regina Ecuba, la vergine folle Cassandra, la sposa di Ettore Andromaca e la figura controversa di Elena.
La violenza dell’uomo è esplicita non solo nei gesti degli attori, ma anche nelle vesti militari scelte per rappresentare il potere e l’oppressione. Ma non è solo agli uomini che appartiene la violenza: nel momento in cui si presenta un capro espiatorio, le stesse vittime si rivoltano l’una contro l’altra per sperare di ottenere il favore di chi deciderà arbitrariamente della loro vita e morte. Emblematico in questo il processo ad Elena, durante il quale allo spettatore viene consegnata una decisione complessa: a chi credere? Quali colpe concrete ha Elena nella distruzione della città di Troia? Può una vittima connivente essere paragonata all’oppressore? È quello che in più piccola scala viene definito victim blaming, ovvero l’atto di scaricare su una vittima la colpa di un determinato avvenimento.
La sensazione, in tutta l’ora e venti dello spettacolo, è quella di trovarsi in un museo degli orrori popolato da quadri viventi, animati anche dal disegno luci di Giuseppe Petti, con pennellate sature ed effetti di luce stranianti anche per il pubblico nei momenti di più alta tensione.
Altro personaggio in scena è la musica, che attinge da un repertorio cantato in greco e anche dalla canzone popolare italiana, oltre che dalla grande lirica che racconta l’epopea di popoli esuli.
La compagnia in scena è una zattera equilibrata, che naviga in una tempesta letterale e figurata, anche contro il ritmo sferzante di un testo pensato con una metrica difficilmente replicabile nella traduzione italiana. Questo corpo unico e sofferente rappresenta, come il regista e la compagnia non hanno mancato di sottolineare esplicitamente con scelte iconografiche all’interno della drammaturgia e anche sui ringraziamenti finali portando sul palco una bandiera della Palestina, le centinaia di migliaia di corpi straziati nei millenni dai giochi del potere.
«Uno dei motivi per cui ho scelto di raccontare questa storia è perché voglio credere che la bellezza possa salvare il mondo,» ha concluso il regista Antonello Ronga a margine dello spettacolo.