Eduardo De Filippo è ancora semisconosciuto ai napoletani. Si rivela, in questo senso, sintomatica un’inchiesta registrata proprio nel 2014, a quarant’anni dalla sua dipartita. Solo un intervistato su dieci, tra i giovani, sapeva esattamente chi fosse stato. La risposta emblematica di quelle interviste si racchiude in una sola “Eduardo De Filippo? Chi il fratello della De Filippis?”.
E in tempi di lezioni online, sembra illogico se non inutile parlare di un artista che non avrebbe mai rinunciato al suo pubblico, quello di persone, quello che «ogni sera» ti fa «battere il cuore». Ma forse, proprio in questi tempi strani e di grande ambiguità lessicale, pare giusto ricordare un uomo che dell’ambiguità fece un’arte, trasformandola da una categoria di pensiero negativa, secondo la visione un po’ scontata e scolastica dell’etica occidentale e ipocrita, in un atteggiamento di sospensione del giudizio, una porta verso l’inconoscibile.
Se Eduardo è tuttora poco noto in Italia, ma idolatrato all’estero è dovuto al provincialismo di una intellighenzia nostrana, autoreferenziale e stalinista di maniera. Era comune un metodo di etichettatura del fenomeno creativo secondo i canoni ottocenteschi, da un lato, e moralistici e conformisti dall’altro. Dove gli artisti si giudicavano col metro della “denuncia sociale”, quando poi, l’espressione era la foglia di fico per nascondere l’appartenenza o meno di un mediocre, che in grazia alle simpatie politiche, quasi sempre di sinistra, senza narrare niente, senza intrecciare alcuna trama, diventava “genio”.
Eduardo, pur essendo schierato verso posizioni progressiste, se non apertamente comuniste, subì l’ostracon proprio dalla critica napoletana, che senza approfondire il significato universale delle sue commedie, gli archetipi e le angosce della sua narrazione drammaturgica, lo relegarono nella sezione mentale del “teatro dialettale”.
Ma i detrattori di Eduardo non gli perdonavano soprattutto il non essersi voluto conformare alla loro visione gretta, che come accade tuttora, con lo stesso mondo intellettuale napoletano mummificato, è quella che limita e rallenta la carriera di grandissimi artisti partenopei, che rifiutano la marchiatura di “artista napoletano”, “scrittore napoletano”, “poeta napoletano”, sentendosi semplicemente e anche in maniera banale, artisti e basta.
Ritornando all’ambiguità, caratteristica peculiare delle commedie di Eduardo, ne è stata ampliata la portata dirompente del termine, perché essa venendo accostata all’origine partenopea del Maestro, e per una sorta di metonimia, descrive il napoletano, che nell’immaginario collettivo è cialtrone, è per sua stessa natura ambiguo. Ma i personaggi di Eduardo, non sono ambigui, nel senso deleterio e manicheo del termine, ma parlano un linguaggio sfumato. Un po’ come i quadri di Leonardo, dove è lo spettatore a cogliere, a seconda della sua capacità analitica della realtà, le diverse facce di quest’ultima.
Non tutto di ciò che esiste è spiegabile con assunti scientifici, sillogismi logici e concetti adamantini. Anzi, la natura delle cose, è per la maggior parte celata, e si manifesta solo agli occhi degli individui più sensibili. Quelli che vedono oltre le parole, oltre il singolo gesto. E in quest’ottica Eduardo capisce e scopre qualcosa di antico, ancestrale. Una simbologia dai forti connotati esoterici. Il matto. Lo stregone. Lo sciamano. Tipologie umane che raccontano la Verità sotto mentite spoglie, attraverso la follia. Attraverso comportamenti, che per i più appaiono ambivalenti appunto, e così li classificano per la propria miseria antropologica. La loro incapacità ad andare oltre.
Il matto per questo viene emarginato, il bambino autistico bullizzato. Perché, nell’uno e nell’altro caso, la diversità spaventa e il candore di queste anime nobili viene volutamente frainteso per autodifesa. Ci si scherma cioè dalle angosce più profonde, dai misteri e dalle domande più pregnanti dell’esistenza, che attraverso il solo sguardo mite e indifeso del folle ci vengono sottolineate e quello stesso sguardo da mite diventa accusatorio, minaccioso per la stabilità di “uomo” che si sente immortale e che di fronte all’inconoscibile, invece di attrezzarsi per renderlo conoscibile, ne fugge. O capovolge la situazione a suo favore, rende il matto un nemico da sopprimere. E questo meccanismo perverso diede luogo ai pogrom e alla serie di caccia alle streghe, ed oggi, come ieri, agli untori. Il pazzo, sempre inconsapevole di esserlo, nelle commedie di Eduardo, oppure mentecatto solo per il giudizio della società, non è, come in maniera superficiale ci hanno detto finora i critici, un cattivo travestito da buono, ma un buono che per necessità è cattivo. Ma non la necessità opportunistica del cialtrone atellano della commedia dell’Arte, così come interpretato in maniera strumentale (nel teatro di Eduardo non ci sono i pulcinella). La necessità anankè greca. Quella legge indeterminata che muove l’universo e che in tutto il Teatro di Eduardo è presente proprio come nella tragedia greca lo era il fato. Per cui, la drammaturgia di Eduardo De Filippo, milioni di miglia lontana da quella dialettale e popolare, è più vicina alla scuola mitteleuropea, ove l’individuo è solo contro il suo destino. Ricorda lo scarafaggio kafkiano delle Metamorfosi, i racconti di Cechov, il teatro di Gogol e perfino il folclore klezmer.