Riceviamo e pubblichiamo, riservandoci ovviamente di pubblicare anche l’eventuale replica da parte delle istituzioni scolastiche.
Sono un’alunna del liceo Galizia e ho deciso di scrivere questa lettera subito dopo aver
scoperto di essere stata bocciata. Questa per me non è stata di certo una sorpresa e non è la
bocciatura in sé ad indignarmi, un incidente di percorso può capitare a tutti. Quello che mi indigna è il perché della mia bocciatura.
Da due anni a questa parte mi sono ritrovata a fronteggiare alcuni problemi di salute che non mi hanno permesso di condurre una vita normale. Volendo fare una stima, io, una ragazza di
diciassette anni, in questo periodo sono uscita di casa per svago circa una decina di volte.
Ogni aspetto della mia esistenza è stato minato, stravolto, compresa la vita scolastica, solo che dalla scuola, quell’istituzione che dovrebbe essere portatrice di principi quali l’inclusione, la comprensione e l’umanità, non mi sarei aspettata di essere abbandonata.
Invece più si andava avanti e più il clima diventava ostile, come se la mia situazione non
fosse tollerabile, come se ciò che stavo vivendo dipendesse da me.
Per via della malattia ho visto la mia quotidianità mutare. La scuola rappresenta un pezzo di
questa quotidianità, un anello della catena, è come la famiglia, è come gli amici. È proprio per questo che si sarebbe dovuta adattare alla mia nuova vita garantendomi la sua presenza,
non sparire. È un mio diritto ed è anche un dovere, motivo per cui ho sempre cercato di adempiere ad ogni mio compito a prescindere dalla mia condizione.
Alcuni docenti ci hanno tenuto a ricordarmi che non eravamo all’università, umiliandomi davanti ai miei compagni e incitandoli a dipingersi come le vere vittime della storia, perché
loro a differenza mia si spaccavano la schiena tutto l’anno, erano sempre presenti. L’ingiustizia la stavano subendo loro, non io.
Sono stata costretta a fare tutto da sola. Quando il dolore era troppo forte da non permettermi di stare seduta studiavo a letto, ho faticato come una matta perché la scuola è sempre stata una mia priorità, perché ci tengo allo studio e ci tengo a costruirmi un futuro.
Da gennaio ho affrontato uno dei periodi più complicati in assoluto per me. Non si trovava
una quadra nella mia terapia, non riuscivamo a capire perché nulla facesse effetto sul mio
corpo. Solo a marzo ho ricevuto una seconda diagnosi: oltre all’endometriosi avevo anche l’adenomiosi, il tassello mancante.
Con tanta perseveranza, con tanti sforzi, sono riuscita ad ottenere lo stesso dei buoni risultati scolastici. Sono riuscita addirittura a mantenere una media dell’8 in alcune materie durante
il primo quadrimestre. Purtroppo però, non ero riuscita a presentarmi per la seconda interrogazione di filosofia,
conclusiva del primo quadrimestre. Così ho ricevuto il primo schiaffo: il mio sette è diventato un quattro in pagella, il primo debito della mia vita. Mi sono così presentata per saldarlo con un compito scritto, che non è stato ritenuto sufficiente perché, secondo la professoressa, ero stata manchevole in alcune risposte, non
avevo inserito ciò che lei aveva detto a voce in classe, nelle spiegazioni a cui ovviamente
non avevo assistito. Avrei potuto conoscere il libro di testo a memoria, ma non sarebbe
bastato. È innegabile dire, a questo punto, che quella della mia professoressa sia stata una
volontà. D’altronde stiamo parlando della stessa donna che, in quanto coordinatrice, non si era preoccupata di informare della mia situazione i nuovi docenti al termine del primo consiglio
di quest’anno. Addirittura, quando qualche mese dopo le avevo chiesto di diffondere un messaggio ai suoi colleghi con una semplice richiesta, specifica e legittima, quella di essere
inclusa nella vita scolastica attraverso qualche video, foto o lezione integrativa su classroom, mi ha risposto che era inutile, perché il Consiglio già sapeva. Stiamo parlando della stessa donna che, al termine del terzo anno, aveva parlato con la
classe in mia assenza, sostenendo che la bocciatura sarebbe stata la cosa giusta per me, perché ero certamente preparatissima, però avevo perso le esperienze. È questa la linea che è stata portata avanti, le esperienze. Come se a me non fosse costato
nulla, come se non soffrissi pensando di aver vissuto al minimo, quasi gettato, due anni
della mia vita per una cosa fuori dal mio controllo.
Un tema importante è stato quello della DAD, perché ovviamente abbiamo fatto tanti
tentativi per cercare di restare in contatto con la scuola. Dalla dirigenza era stato riportato ai docenti che noi, famiglia, l’avessimo rifiutata. A quel punto, scoprendo questa cosa, i miei
genitori si sono recati dalla preside per un colloquio da cui erano usciti contenti e soddisfatti: si erano accordati per attivarla, finalmente. Sembrava filare tutto liscio, dunque.
Tutto risolto, un banale fraintendimento.
Due giorni dopo riceviamo invece una chiamata dalla prof di filosofia: la DAD non si può fare, la soluzione è ritirarmi da scuola e poi farmi fare un esame a giugno. Alcuni potrebbero non vederci nulla di male di primo acchito, ma pensandoci, ritirarmi da
scuola, escludermi perché ho una malattia, è davvero la cosa giusta? Se vogliamo porla
diversamente, sarei dovuta uscire dalla porta, perché considerata un caso da attenzionare, un
problema da risolvere, e poi rientrare dalla finestra sperando di non disturbare nessuno.
Decidiamo dunque di rifiutare, e i miei ritornano dalla preside, che a questo punto gli dice che se non mi avessero ritirata da scuola, il consiglio avrebbe potuto rigettare le deroghe e io sarei stata bocciata.
Detto fatto. E così, questa questione si è trasformata in una lotta di ego e di orgoglio, un becero esibizionismo di potere. Sulla mia pelle.
Il clou è stato raggiunto negli ultimi giorni di scuola, quando ho chiesto a tutti i prof che non avessero mie valutazioni di essere interrogata, solo per scoprire che alcuni si sarebbero rifiutati di sentirmi. Ci sono stati due episodi eclatanti:
Il primo si è verificato durante l’ora di matematica, quando la stessa preside si è recata in classe, ha ascoltato attentamente l’appello per verificare che fossi presente, poi si è avvicinata alla docente e le ha sussurrato qualcosa all’orecchio. A quel punto, la
professoressa, che quel giorno avrebbe dovuto interrogare, ha comunicato alla classe che avrebbe spiegato. Ripeto, spiegato il 31 maggio. “Prof, posso essere interrogata?” le chiedo.
“Mi dispiace, oggi devo spiegare.” mi dice, guardandomi con un dispiacere forzato. Alla fine dell’ora mi avvicino a lei. “Posso venire martedì, allora? È l’ultimo giorno che ci vediamo.”
“Non lo so, dipende dalle attività che ho da fare.”
Martedì la professoressa non si presenta. Il secondo si è verificato durante l’ora di filosofia. La professoressa stava facendo delle
domande sparse alla classe, eravamo una decina quel giorno. Ha fatto rispondere a tutti, a tutti tranne me. L’umiliazione più grande l’ho provata quando io, come gli altri, alzavo la
mano per rispondere, per provare a inserirmi nel dibattito. Ma lei non mi ha mai consentito di prendere parola, credo non mi abbia nemmeno guardata in faccia per tutta l’ora. Per lei
non esistevo, per lei ero già fuori da quella classe.
Con questa lettera, raccontando quello che ho vissuto nell’ultimo periodo, non intendo dire
che è tutto marcio. Non lo penso ora e non lo penserò mai. Non posso, perché allo stesso
tempo ci sono stati altri miei professori che, impotenti, hanno cercato di darmi forza e hanno combattuto per me, perfettamente consapevoli dell’ingiustizia assurda che stessi subendo.
Quando ho realizzato che ormai non c’era più nulla da fare, che avevo effettivamente perso l’anno e non per causa mia, quelle persone hanno cercato di consolarmi, ripetendomi che
erano stati loro, in quanto scuola, ad aver fallito. “Abbiamo fallito noi, non tu, abbiamo fallito noi.”
Ecco, loro lo sanno e io lo so, ma un alunno un pelo più fragile, con una rete familiare meno forte alle spalle, probabilmente al mio posto avrebbe abbandonato definitivamente la scuola. Per non parlare delle ripercussioni psicologiche. Siamo sicuri sia questa la scuola che vogliamo? È davvero accettabile tutto questo?